Il vuoto che lascia Mark Lanegan

Ci auguriamo, per un po’, di non dover affrontare altre considerazioni legate ai lutti ma per il momento è doveroso esprimere un sentito cordoglio per la prematura dipartita del cantautore e compositore Mark Lanegan.
Solo cinquantasette anni su questa Terra per testimoniare il dolore con sublime personalità.
La dialettica di Lanegan si adatta alla perfezione al tema “cultura Pop” che sovente affrontiamo su queste pagine, restituendo dignità al giovane popolo perduto degli anni Novanta attraverso una musica personale, intima e talmente gelida da risultare caldissima.

Un giovane Mark Lanegan

Lanegan raggiunge il successo nel 1990, in uno spartiacque storico/culturale denso di tutto ciò che il termine “crisi” porta con sé. Nell’epoca delle contraddizioni, gli Stati Uniti racchiudono tutti i crismi del disagio ed è questo concetto che afferra immediatamente il giovane musicista nato nei pressi di Seattle, nel fertile terreno artistico/musicale dello Stato di Washington. Provenire dalla stessa terra di Jimi Hendrix è un’eredità enorme eppure – saranno le acque del fiume Whiskah, sempre care a Kurt Cobain – la generazione “grunge” germina il suo seme proprio qui, diluendo la tradizione blues e funky con un concentrato di varechina che distrugge gli stilemi del rock e li riformula secondo la ricetta dell’estinzionismo cosmico.
La morte intesa come buio, come fine, come fuga dal mondo a cui siamo inadatti: ecco come si può riassumere la narrativa del genere musicale rivelazione di fine millennio. L’apatia è la nuova rivoluzione, definibile più come involuzione, di una massa giovanile stanca e stordita dai postumi della sbornia Yuppie e che nemmeno a vent’anni si ritrova invischiata nella Guerra del Golfo, nella fine dell’URSS e nella certezza che il mondo non potrà mai più sostenere i ritmi della società dei consumi. Internet, sebbene esista già, non è ancora arrivato nelle case di tutti e non ha invaso la mente e lo status sociale e relazionale delle persone, offrendo una via d’uscita più dolce del suicidio ma altrettanto alienante e fallimentare nella sua decostruzione dei rapporti umani.

Gli Screaming Trees

Lanegan sceglie di cantare questa linea di confine, sceglie di mettere in musica la paura del domani, l’incertezza del futuro e soprattutto la negazione di se stessi.
Fonda gli Screaming Trees nel periodo in cui nascono Nirvana, Soundgarden, Alice in Chains, Pearl Jam, Meat Puppets e altra svariata umanità distorta, e la sfida per emergere è dura tanto quanto uscire dal fango del succitato fiumiciattolo.
Ma il buon Mark affiora concentrando tutto sulla sua figura cantautoriale, il suo piglio intimo, la sua qualità raffinata e acida al contempo, realizzando l’album d’esordio “The Winding Street” dove mette in scena le medesime tematiche degli altri mediante la contaminazione del blues. Meno devastante dei Nirvana, meno metallaro dei Soundgarden, meno hard dei Pearl Jam, meno disperato degli Alice in Chains, meno politico dei Meat Puppets, è proprio nella sobria proprietà lo-fi(da Low-Fi, bassa fedeltà: un modo di suonare semplice e registrato in maniera scarna) che trova la dimensione perfetta della sua espressione, sebbene essa risulti comunque difficile, articolata, di grandissima sensibilità.

Il mistico fiume Wishkah

Gli Screaming Trees raddoppiano e sovrastano se stessi proprio nell’anno in cui Cobain si toglierà la vita e tendenzialmente si usa porre la lapide sul fenomeno “grunge”: il capolavoro è servito e si chiama “Whiskey for the Holy Ghost”. Un disco che permette a Lanegan di esplodere in tutto il suo ego, in tutta la sua brillantezza oscura; scevro dal peso di un genere musicale che gli è stato affibbiato e che in nemmeno cinque anni non esiste già più, è adesso pronto a spaziare e creare la propria identità.
Lanegan si evolve in una mutazione dolorosa e kafkiana; la sua voce si distorce, marcisce; la sua anima si crepa. La tradizione folk gotica del profondo ovest americano entra nelle sue vene come in una maledizione Yakama, la popolazione Indiana che sorge nello Stato di Washington e che è sempre stata foriera di tenebrosa ispirazione. Proprio da quelle parti è stato ambientato “I Segreti di Twin Peaks” , dove il regista David Lynch ha attinto a piene mani dalle tradizioni native del luogo, e non è un azzardo affermare che i due artisti si somiglino molto, precisamente nella caratteristica che più gli accomuna: la discesa nell’abisso.
Se Lynch ne trae grottesca e ironica satira sull’ecosistema delle piccole umanità, Lanegan ne ricava la faccia oscura che emerge dal profondo della normalità.
Accennavamo al fatto che chi ama la cultura pop abbia un indissolubile legame con la produzione artistica di Mark Lanegan, ed ecco perché: ogni sua nota ha sempre trovato posto, come una tessera di un puzzle, come una chiave nella propria serratura, dentro il cinema, il fumetto e la letteratura. Lanegan è entrato dentro ad altri artisti contaminandoli – o per meglio dire contagiandoli con la sua maledizione – e ne ha accompagnato le gesta spingendosi al limite della proiezione astrale.
Neil Gaiman, scrittore dallo straordinario talento onirico, ha sempre voluto al fianco delle sue creazioni l’eco di Lanegan: dalla recente serie televisiva “American Gods” (folk-fantasy-on the road che vi consigliamo caldamente) fino agli albori nel mondo del fumetto, quando le parole delle canzone degli Screaming Trees accompagnavano le tavole meravigliose del grande capolavoro di una vita, “Sandman”; le vicende di una divinità dei sogni che empatizza con il genere umano, con i propri desideri e i propri tormenti, accompagnato dalla Morte, disillusa entità sarcastica e amareggiata dalla caducità autunnale del mondo.
Si capisce bene, dunque, il vincolo che sussiste tra la voce di Mark e chiunque cerchi di realizzare arte parlando di uomini, carne e sogni.

La serie TV American Gods

Dal disagio giovanile al disfacimento spirituale della mediocrità, il percorso di Lanegan giunge alla maturità, affondando sempre più nella tradizione americana. Nascono le grandi cover, gli album in “purezza”, fatti solo della sua voce ormai consumata come una ciminiera nera e di una strumentazione musicale ridotta ai minimi termini, dove si cerca la storia della leggenda, la verità nel fantastico. Ormai Mark è un tutt’uno con l’abisso che andava scrutando. Maestro di una cerimonia western, è salito sull’ultimo cavallo bianco ed è tornato nei grandi campi celesti, riunito con il Grande Spirito di un America così lontana.

Michele Simonetti