Addio, Bravo Ragazzo

“Se lo costruisci, lui ritornerà”…lì per lì, Ray Kinsella – alias Kevin Costner – è convinto che se darà fondo a tutti i risparmi della fattoria di famiglia per costruire un campo da baseball in mezzo al granturco, avrà modo di ridar vita allo spirito del suo idolo dell’infanzia: il campione “Shoeless” Joe Jackson. In seguito, le vicende di quella meravigliosa favola contemporanea che rappresenta il film “L’uomo dei sogni”, il buon agricoltore capirà che il ritorno sarà di qualcun altro, ben più importante, e che la sua missione avrà un valore messianico. Ma non siamo qui per svelare i contorni magici del lungometraggio di Alden Robinson, bensì per un commiato doloroso e inaspettato, cinematograficamente rappresentabile con la figura di “Shoeless” Joe Jackson che si allontana nella fitta coltivazione di mais e scompare lentamente lasciando la sua veste temporale sulla Terra e ritornando tra le stelle del cielo…e dei sogni.
Ad interpretare il leggendario giocatore di baseball fu Ray Liotta. Ray Liotta ci ha lasciato prematuramente e con egli ci hanno lasciato le sue magistrali interpretazioni e il suo sguardo di ghiaccio ingenuo e beffardo.

Ray Liotta nei panni di “Shoeless” Joe Jackson in “L’uomo dei sogni”

Gli occhi di un ragazzino italoamericano di quartiere, un vero prodotto dell’immigrazione Made in New Jersey: Ray Liotta incarna il fisico e l’atteggiamento del “guappo” romantico e irresistibile, perfettamente a suo al cinema come sarebbe potuto esserlo in mezzo alla strada. Chissà com’era, Ray da ragazzino, quando girava per le viette di Newark con la sua cricca di amichetti, a far partire idranti e giocando a baseball tra le macchine parcheggiate; ci viene in mente un film di Martin Scorsese, vero?
E come potrebbe essere altrimenti? Eppure Ray Liotta ha sempre combattuto fieramente il rischio di ridursi a caratterista o a macchietta da film di gangster; e bisogna anche dire che ha parzialmente vinto la sua partita.
Perché non è facile sconfiggere quella faccia da bullo bella come il sole e “sudata come una bestia”, quel sorriso, quella capacità mimica di raccontare se stesso e il suo pregresso. Ray fu adottato, insieme alla sorella, da una famiglia di gente che lavorava, lavorava sodo. E dopo la strada arrivò l’occasione di dare una svolta alla propria esistenza, con un “italianissimo” trasferimento a Miami in giovanissima età. Iniziarono le telenovelas, gli spot pubblicitari; le opportunità, insomma, che offriva la televisione destinata agli ispanici della Florida. Il talento di Liotta scatenò subito un certo passaparola tale da fargli conquistare in breve tempo il cinema vero, il cinema di un uomo su tutti: eccoci arrivati alla corte di Martin Scorsese.

L’irresistibile risata di Liotta in “Goodfellas”

Lo vuole in tutti i modi per affidargli la parte principale di uno dei suoi film più iconici, al contempo assimilabile ai maggiori capolavori della cinematografia contemporanea: Goodfellas – Quei bravi ragazzi . Guardando quel film è subito chiaro quanto Ray Liotta sia a suo agio ed è altrettanto chiaro quanto Scorsese gli lasci la possibilità di essere naturale, se stesso; di divulgare al pubblico la sua esperienza reale di vita. Se guardate quel film non potete infatti rimanere impassibili dinnanzi alla risata di Ray Liotta: un must, un affresco, un simbolo ormai immortale di come si rappresenta con originalità uno “scugnizzo” del Jersey. Ray Liotta doveva vedersela – buttato lì con il coraggio e l’incoscienza tipici del puro genio “scorsesiano” – con dei mostri del cinema, tra l’altro particolarmente a loro agio nelle storie di gangster, e già rodatissimi nel lavorare con il regista del Queens: Robert De Niro, Joe Pesci, Paul Sorvino, Frank Vincent, Lorraine Bracco e tanti altri appartenenti al gotha new-hollywoodiano specializzato in gangster movies.
Ciononostante Ray Liotta spicca come un’aquila e regge alla grandissima il confronto. Una parte -bisogna dire – a dir poco perfetta, perché Scorsese gli cuce addosso un personaggio che parla la sua stessa lingua: un novellino, un neofita del crimine che fa tutte le scelte sbagliate possibili immaginabili e ciò gli consente di conseguire traguardi nel mondo della malavita, la quale gli offre costantemente evoluzioni di carriera, soddisfazioni veloci, successo, fiducia in se stesso. E’ il ragazzino che viene amato da tutti, coccolato dal boss, caricato successivamente di un fardello enorme e infine costretto all’angolo, spogliato di ogni possibilità di fuga, devastato dal vortice in cui la mafia ti avvolge e ti avviluppa senza scampo alcuno.
Il film è un compendio sul malaffare, un dizionario che svela il codice del crimine, un manuale per anglofoni di ciò che significa mafia e “famiglia”. Si scoprono nuovi termini, una nuova cultura popolare, un sistema di comunicazione: Scorsese firma un linguaggio e ne rende partecipe un’intera nazione. L’America a cui il regista fa aprire gli occhi utilizzando proprio Ray Liotta e il suo viso così diabolicamente innocente come passpartout emotivo.

Magistrale interpretazione in “Copland”

Alla luce di un simile riflettore, è evidente che Liotta rischiava la ghettizzazione di genere, rimanendo legato a un personaggio e a una storia difficilissimi da togliersi di dosso. E’ per questo che sceglie subito parti piccole, minori, marginali ma tremendamente – obbligatoriamente – diverse. Si ritaglia diversi personaggi molto particolari, tra cui appunto l’etereo messaggero “Shoeless” Joe Jackson fino al ritorno, durante la seconda metà degli anni Novanta, ai ruoli da protagonista. Saranno due i film più significativi di questa tranche molto intensa: “Fuga da Absolom” e “Copland”.
Il primo – che molti additano come disastroso e che personalmente invece trovo maldestro ma riuscito – è una sorta di survival fantascientifico/distopico con uno svolgimento piuttosto banale e rodato, in tutto e per tutto simile al Carpenter di Fuga da New York (una sorta di capostipite del sottogenere, sinceramente abusatissimo): Liotta interpreta un portentoso militare tutto d’un pezzo – tale J.T. Robbins – che viene incastrato da un’organizzazione corrotta e dunque condotto su di un’isola – Absolom – che funge da carcere per dissidenti e criminali di un non ben precisato regime, territorio dal quale è naturalmente impossibile fuggire, pieno zeppo di una variopinta umanità quasi tutta finita in quell’inferno perché arrestata proprio da Robbins. Ray Liotta, con quel bel paio di occhioni, regge la sua totale mancanza di fisicità con uno spirito notevole, tantissima mimica, un sano umorismo e una qualche incertezza che rende il tutto lievemente patetico ma simpaticamente burlesco. La regia di Campbell ci mette del suo, costruendo una sorta di habitat nichilista neomedievale, dove i carcerati “buoni” si sono adattati ad una vita primitiva da pescatori e subiscono le angherie dei mega cattivoni (che ricordano terribilmente Mad Max, come al solito) pronti a far scorrerie dalle profondità della giungla nel cuore dell’isola. Ebbene, il risultato è più hardcore e onesto di quel che si possa pensare.
Il secondo film, Copland, è bello davvero. Sottovalutatissimo – oggi va di moda dire underrated – è un gioiello di neorealismo di fine millennio, disincantato e sobrio, umile e intelligente, tetro e amaro. La corruzione che serpeggia nelle cittadine dormitorio che vivacchiano sornione d’intorno a New York. Una questione sociale difficile da mettere in scena e che certamente fa fatica ad intrattenere, eppure di un’importanza cruciale per comprendere una realtà contemporanea fatta di connivenza e comodo. Un film che serve; un film vero. Dove, oltre a un Ray Liotta che dire enigmatico è dire poco, c’è anche un superbo Stallone completamente fuori dai suoi soliti panni, e la presenza di De Niro e Harvey Keitel in ruoli plumbei e tutt’altro che agevoli. Il risultato è sorprendente, perché Ray ci delizia con una parte che dimostra tutta la sua capacità drammatica e la sua completezza come attore di indiscusso valore. E’ mellifluo, silenzioso e bugiardo; al contempo dimostrerà lealtà, fiducia e riscatto. E’ un uomo vero pieno di tutto quello che detestiamo vedere davanti allo specchio. In definitiva bisogna anche dire che il film ha un contro non indifferente: è palloso. Traduciamo con esattezza: manca di ritmo e la notevole trama – per altro recitata da dio dal cast – sono elementi sostanzialmente penalizzati da dialoghi debolucci e altrettanto noiosetti.

Ray Liotta cambia genere in “Fuga da Absolom”

Tutto il nuovo millennio consacra Ray Liotta come un ottimo attore da parti secondarie dense di carisma e personalità. I lungometraggi interpretati da Liotta, in pratica, te li ricordi tutti facendo più o meno lo stesso ragionamento: “…e c’è anche Ray Liotta!”. Solo lui, solo il suo viso, che si fa più bonario e imbolsito con l’età, vale come “plus” per il film intero. Una boiata senza pretese come “Svalvolati on the road” – che comunque scorre felicemente – acquisisce tutta un’altra luce quando compare Ray Liotta. E che cosa fa? Fa se stesso, con un’autoironia e una capacità di critica a dir poco sensazionali. Senza dimenticare gli svariati ritorni al gangster movie, ricamando parti e particine sempre all’altezza, come in “Cogan – Killing me softly” o l’ultima fatica – lo spin-off dei Soprano – “I molti Santi del New Jersey”, dove torna a casa per vestire i panni di qualcuno che la strada la conosce come le sue tasche.
Poi, come tutte le storie più belle, d’improvviso finiscono e ti scuotono così, senza preavviso, di un brivido malinconico e pieno di ingiustizia. Ma la vita, ci insegna il “bad boy” Ray Liotta, quando mai è giusta? Era giusta per strada?
Noi, il nostro “bravo ragazzo”, lo ricorderemo per sempre e gli faremo per sempre parcheggiare le nostre Cadillac.
E mentre noi piangiamo la tua perdita, mentre non ci capacitiamo del fatto che tutto sia così beffardo e fatidico, tu la Cadillac rubala e portala a Newark!