Cinema: la Corea conquista Cannes

No, non è una novità e nemmeno una sorpresa. Gira che ti rigira, sono vent’anni che il cinema proveniente dal Paese del Calmo Mattino ha raggiunto l’attenzione della critica – ma anche il gradimento del pubblico, è bene che si sappia – occidentale. L’arte coreana è antichissima e sorprendentemente varia ed eterogenea, ricca di pitture, decori e poesia. C’è una lirica silenziosa e calma, protettiva e tradizionale che si fonde con lo sfrenato progresso proiettato verso un futuro che a Seoul è già oggi, già ora.
La solitudine è marcata dal misticismo del confucianesimo in netto calo rispetto alla distaccata forma di credo laica e distratta del cattolicesimo “d’importazione”. Il confine con l’arretratezza della Corea del Nord, con la dittatura, con un passato tetro e lugubre, è talmente sottile che nei paesi di campagna sul doloroso limes si sentono gli altoparlanti della propaganda; di là, a cinquecento metri dal paese più libero e progressista di tutto l’estremo oriente, ci sono i campi di concentramento e un regime militare fermo a prima della Seconda Guerra Mondiale.
Di là, a cinquecento metri dal cinema d’autore e d’azione, dalla musica pop più ascoltata al mondo, si muore di fame e letteralmente viene ancora bollita la terra per mangiarla dai contadini che vivono in una sorta di distorto e distopico medioevo feudale.

Seoul: le luci del futuro

E’ la giustapposizione riflessa, lo specchio delle due Coree. Ma anche il Sud non è tutto rose e fiori e benché questa non sia la giusta sede, possiamo solo accennare (giusto per dare una dimensione tangibile all’operato filmico preso in esame) che all’ombra della Seoul Tower vivono milioni di persone stratificate nel più spietato divario economico e sociale, suddivise in inquietanti settori – anch’essi spaventosamente futuristici – dai quali è quasi impossibile uscire, cambiare, emergere. Addirittura peggiorare è difficile, in Corea del Sud. Se uno è ricco, benestante, allegro danzatore sulla giostra dell’evoluzione finanziaria, difficilmente retrocederà perché è schiavo di tale situazione; è relegato in tale condizione. E se è un povero disgraziato che vive nella profonda geografia agreste nei dintorni della capitale cosmopolita? Si salvi chi può; e questo infatti fanno tutti i giovani, fuggono e abbandonano le campagne lasciando la Terra delle serre e dei fiori in uno stato di deperimento tale da far sembrare quelle zone il set di un film postapocalittico, dove l’umanità è scomparsa.
E l’umanità sta scomparendo davvero dalle zone rurali, concentrandosi nei grandi centri laddove si cerca disperatamente il successo, l’emancipazione, osservando i ricchi da un sottoscala, bramando l’agiatezza delle k-pop star o gli attori dei k-drama, sapendo nel profondo di sé che al massimo diventeranno quelli col motorino che gli portano il Kimchi Jjigae (piatto tipico coreano) da asporto.
La nazione dei fiori, della calma, della meditazione; il Paese del Taekwondo, della danza, della pittura; il luogo degli dei, dove le stagioni incontrano la perfezione umana; tutto questo si è trasformato nel Paese dell’Asporto: 배달의 민족 • baedalui minjok.
E pensare che un tempo tutti, pure i cinesi, lo chiamavano “Il Popolo Luminoso”.
Eppure una luce è rimasta, un bagliore fatto di tempi lunghi, realismo magico e colori. Una luminescenza composta dai toni del rosso sangue e del nero manto della notte. E’ il cinema coreano che ha stregato tutti, partendo fortunatamente dai ragazzi – dal basso, dalla base – per raggiungere gli occhi increduli di una critica che lo ha (magari anche troppo) mitizzato.
E strapremiato; specialmente a Cannes.
L’anno scorso, bisogna dire, al festival non c’erano film coreani in lizza. Quest’anno ce ne saranno 5, di cui due in concorso finale: “Broker” e “Decision to leave”.
Purtroppo i film in questione non sono ancora usciti (li vedremo e ne parleremo di sicuro quanto prima, in un secondo appuntamento sulla questione) ma per cercare di far chiarezza su tale fenomeno, abbiamo deciso di (ri)guardare alcune pellicole che hanno reso grande il cinema coreano.

Seoul: i il futuro può essere anche degrado

Tutto è cominciato nel 2003, quando giunse a Ovest il lungometraggio “Primavera, Estate, Autunno, Inverno…e ancora Primavera”, di Kim Ki-duk (defunto nel ’20 causa Covid), e tutto è culminato nel 2019 quando l’Academy stessa si è scomodata per rifilare quattro statuette a “Parasite” di Bong Joon-ho. Ma non parleremo dell’ermetica logica tradizionale del primo film e nemmeno della splendida e serrata critica più occidental-friendly del secondo.
Ragioneremo su quel che c’è sottotraccia, nel mezzo, presentandovi vizi e virtù, pro e contro, di un cinema nato principalmente per intrattenere ed emozionare i coreani; poi, semmai, noialtri “visi pallidi”.

La suddivisione è la seguente: film per tutti, d’azione, di intrattenimento; film d’autore, complesso, su cui riflettere. Il risultato è stato sorprendente poiché i ruoli si sono dapprima sovrapposti e infine invertiti; ma vediamo come.

L’Assassina

“L’Assassina” (악녀, Ak nyeo), film del 2019 di Jung Byung-gil (il re del k-action) è una roba stilisticamente monumentale, visivamente innovativa e sebbene si regga su una trama purtroppo fin troppo banale, risulta – nella parte centrale degli eventi – di una dolcezza e di una poesia fuori dal comune. Le intenzioni del regista sono poco chiare ma forse non è confuso, è solo talmente schematico da sembrare indeciso. Eppure l’inizio è da fibrillazione atriale, con un metodo di ripresa che ogni regista americano dovrebbe imparare a memoria, poi si spegne con i classici stilemi dell’annientamento di sé per diventare individui più forti, infine tocca punte di romanticismo quasi settecentesco, struggenti e bellissime, poi torna un mediocre festival del già visto e infine ci delizia con un’altra ondata di ultraviolenza fotografata da dio.
La trama? Semplice, troppo: una ragazza dalle capacità letali e disumane viene rapita da una non precisata agenzia che le cambia i connotati, le cancella la vita precedente e la addestra a diventare ancora più forte e spietata. Ne consegue una ricollocazione nel mondo come cellula dormiente, pronta ad essere chiamata a compiere omicidi su commissione contro precisi obiettivi della malavita coreana. Al fine di controllarla, le viene affidato un agente che dovrà innamorarsi di lei, sposarla e tenerla d’occhio vita natural durante. La ragazza, complice la presenza di una figlia piccola che porta in grembo fin dalla cattura, incrinerà il muro di silenzio e mistero che la avvolge e scoprirà la verità sul suo passato, dapprima cercandolo e infine distruggendolo: sola, disperata, mortale.
Ok, l’abbiamo sentita mille volte una storia del genere e infatti non ne siamo rimasti troppo contenti. E la proiezione talvolta ricorda qualche sgangherato action movie americano primi anni Novanta, tra il videoclip caotico e la sensazione che si faccia il verso a Oliver Stone (o a Tarantino, ma in questo caso è la stessa cosa). Ma quando la ragazza combatte e prendono vita le coreografie danzanti della morte, il turbine espressionista di Jung Byung-Gil diventa stato dell’arte, raggiungendo l’apoteosi in senso cinetico del cinema stesso. Il metodo POV (ripresa in prima persona, dall’inglese Point of View) mescolato alle scene di movimento serrato visto da dentro la mischia crea un vortice di azione e follia che però non spiazza, coinvolge invece a tutto tondo lo spettatore che si trova gettato nella disperazione della protagonista grazie a piani sequenza della durata anche di sette, otto minuti (e in un film d’azione sono eternità adrenaliniche).
E poi? Poi c’è l’inframezzo in cui l’Assassina cerca di vivere una vita normale con sua figlia e che risulta dolcemente goffa, impreparata alla serenità e alla quiete. Su questa cornice periferica si inanellano eventi che portano alla nascita di una vera storia d’amore con l’agente che la controlla; un amore sincero, imbarazzato, adolescenziale, purissimo. Ed è cinema d’autore, coreano al cento per cento. C’è tutto quel pudore, quella miseria umana ricchissima di sensibilità che stravolge l’uomo e lo trasforma in un fiore bianco. Delicato e pronto ad appassire sotto i colpi infami della vita.

Burning, l’amore brucia

“Burning, l’amore brucia” (버닝?Beoning) di Lee Chang-Dong è un film del 2018 e rappresenta una visione più politica della Corea del Sud; politica sociale, si intende. La pellicola, anch’essa sottoposta alla solita incetta di premi da parte della critica occidentale, si presenta come un film più impegnato, maturo e “culturale” del precedente, ma proprio su queste note stecca, mentre sul piano dell’alienazione, della violenza visiva (e non spiattellata) e del costume, rievoca tanto e lo fa pure molto bene. Due casi umani (su questa tipologia di personaggi il cinema coreano ci punta spesso) incrociano le loro esistenze e all’arrivo del “terzo incomodo” la situazione precipita.
D’accordo, la diciamo un po’ meglio: un ragazzo e una ragazza di estrazione povera, galleggianti in una bolla di solitudine e depressione ciascuno per le sue ragioni, si innamorano e trovano una sintonia che gli dona speranza: di ritorno da un viaggio, la ragazza si presenta con un altro giovane, ricco e riuscito (vedi il ragionamento di prima sui “settori”), il quale non si sa cosa faccia nella vita ma sembra completare ciò che di irrisolto c’è tra di loro. Lei sguazza letteralmente in questo triangolo socialmente comodo e emotivamente intrigante , mentre lui si consuma di gelosia e non riesce nemmeno bene a capire quale sia lo scopo di tale gioco. Dopo vari incontri la tensione raggiunge le stelle e si comprende che il ragazzo ricco e sicuro di sé rappresenta un enigma forse perfino pericoloso. E la situazione, letteralmente, “brucia”.
Anche se poi, nel film, non brucia mai niente. E non brucia neanche la passione, argomento che probabilmente noi mediterranei affrontiamo con ben altra audacia. Sì, perché il film tarda a ingranare, non osa, non esagera e nemmeno ci lascia – alla fine dei giochi – a bocca aperta. E la poesia, di cui Chang-Dong è profeta in patria e fuori, latita in svariate occasioni.
Di sicuro c’è tanto mestiere e soprattutto c’è una fotografia da urlo: possiamo ben dire che quasi ogni inquadratura del film sia uno splendido dipinto.
Ma le tinte, nel cinema, vanno animate con qualcosa di puro e si percepisce una certa dose di furbizia ruffiana – per carità adattissima quando si fa politica – alla fin fine un po’ falsa.
La dimostrazione che in Corea ci sia un divario sociale insormontabile e che i poveri vivono una vita difficile che li porta alla paranoia e alla disperazione tanto da risultare dei bugiardi non degni di credibilità è il fulcro della filosofia del film. E che i ricchi la passano liscia perché sono adornati di un’aureola di stima e di status sociale tale da poterli assolvere da ogni peccato in quanto tali è la critica feroce del regista. Ma non è affatto feroce e, come detto: il fuoco è bellissimo a vedersi ma quando lo tocchi non brucia.
E’ vincente, almeno, il rapporto parallelo del protagonista (il caso umano maschio) con suo padre: davvero lancinante. Un ragazzo senza arte ne parte che vorrebbe fare lo scrittore ma non ha mai scritto nemmeno una riga, che vivacchia e deride se stesso senza dignità, dimostra in fondo un coraggio risoluto grazie al suo scontro generazionale con un padre violento, irascibile e taciturno, con il quale non c’è alcun legame ma solo un glaciale silenzio fatto di amore folle oppure di indifferenza cosmica. Un vecchio matto, inadeguato al mondo civile e moderno, che rappresenta per tutto il film (senza pronunciare nemmeno una battuta) l’unico faro di umanità.

Alla fine di questa panoramica inziale, saremo lieti di continuare con voi il viaggio nel cinema coreano, pertanto rimanete sintonizzati perché prossimamente analizzeremo le pellicole in gara provenienti dal Calmo Oriente!

Michele Simonetti