Quando l’Inverno volge al termine e lascia lo spazio alle prime piogge torrenziali che mirano a mitigare il clima, per i cinefili più incalliti e per gli appassionati di sangue e viscere, è tempo di celebrazioni: numerosissime sono infatti le manifestazioni di gratitudine e plauso al magistrale regista David Cronenberg, che compie settantanove anni (portati orrorificamente bene). Il voyeurismo elevato ad arte come giustificazione dello spettatore-maniaco che, in quanto tale, è legittimato ad essere se stesso durante la proiezione, a dispetto del costume nelle cui trame è vincolato e costretto a vivere recluso. Il cinema di Cronenberg è amorale, beninteso, non immorale, ed è una differenza enorme; poiché è un cinema che non giudica ma che osserva e spiega con metodo scientifico, chirurgico. Si potrebbe definire cinema anatomico, in cui la materia – il corpo umano – è la sostanza e il fulcro di tutta la sua poetica. Le scelte non vengono compiute seguendo l’etica o la mancanza di essa ma sono regolate da liquidi, umori, muscoli, nervi e tessuti: il cinema di Cronenberg è organico.
Il bene e il male non hanno rilevanza e il risultato di ogni azione, dalla più virtuosa alla più perversa, è dettato da un’ossessione patologica per un qualsiasi richiamo di una qualsiasi parte del nostro organismo.
Diversissimo da Lynch, a cui viene spesso accostato, per una visione totalmente oggettiva nel suo disturbante aspetto estetico. Non c’è paradosso grottesco, non c’è ironia, non c’è sottinteso. Cronenberg pone sotto l’obiettivo ogni cosa, offrendo uno spaccato impietoso della realtà umana, la quale di per se stessa è più splatter e più claustrofobica del soprannaturale, del tutto futile nel canone della filosofia cronenberghiana.
La regia è immagine di ciò che accade e ciò che accade è senza dubbio schifoso, orrido e squallido.
Tutto ha inizio nel 1976, con un esordio che sarà rivalutato decenni dopo alla stregua dei massimi capolavori ermetici della cinematografia contemporanea: il cortometraggio “Macchina Italiana”; il titolo allude ad una motocicletta Ducati 900 da competizione in una versione celeste/argento rarissima. Nei trenta minuti di svolgimento Cronenberg identifica subito la problematica umana legata all’arte, spogliando la ricerca della bellezza di tutta l’estetica e lasciando solo la nuda ed orrenda logica del possesso. L’uomo, per Cronenberg, vuole le cose (siano esse animate, inanimate o astratte) solo per soddisfare un’ossessione di proprietà, carnale e primitiva, senza nessuna sensibilità. L’amore è collezionismo, il collezionismo è parafilia: a tal proposito è doveroso dire che l’opera omnia di Cronenberg è un dizionario di parafilie, un compendio più che esaustivo di ogni deviazione psichiatrica umana.
Come detto, per ogni parte del nostro corpo corrisponde una mania e così per ogni elemento che esiste al di fuori di noi, nel mondo esterno, c’è una precisa devianza sessuale.
Il percorso di impietoso osservatore prosegue con Scanners, film del 1981 laddove l’utilizzo della science fiction è un mero pretesto per raccontare un’altra fobia erotica e pruriginosa: leggere la mente. E’ più che umana questa volontà, ognuno di noi vorrebbe introdursi nella mente altrui e Cronenberg regala alla parte peggiore dell’essere umano due ore di delirio in cui si penetra direttamente nei cervelli degli altri, carpendo i segreti più profondi e deviando l’inconscio, fino ad un controllo totale sull’inerte psiche del prossimo. Il risultato è la letterale esplosione di teste, in un tripudio grandguignolesco di soddisfazione atavica per le scene più esplicite e truculente.
Il genio di Cronenberg si consolida nel 1983 allorché nelle sale giunge Videodrome: il voyeurismo bieco come business centrale di tutta la società degli anni ottanta. Benvenuti nell’era delle televisione, sotto l’egida dei mass-media. Poco importa se poi finiamo fagocitati dal nostro televisore. Videodrome è un circo emetico e senza vergogna, un trattato sulla perdita della dignità e un manifesto all’indecenza dei costumi, perduti e asserviti a quindici minuti di fama.
Già considerato all’unanime come un maestro, Cronenberg scalerà il decennio reaganiano con altri due film imperdibili: La Mosca (il suo film più famoso) e Inseparabili. L’uno narra la tematica della metamorfosi toccando probabilmente la cima assoluta del cinema dell’orrore; l’altro, per contrapposizione, affronta il tema della suddivisione, sia come separazione fisico/chimica sia come differenziazione tra le personalità di un solo uomo. La Mosca unisce due creature differenti, Inseparabili divide in due una sola creatura. La commistione uomo-insetto, non poi così dissimili nella loro coprofagica essenza e la mitosi cellulare come conseguenza dell’odio di se stessi e il rifiuto di una parte di noi, con la rassicurante certezza che cova dentro ogni essere umano per alla fine sceglieremmo la nostra parte cattiva, disumana e spietata.
Con l’arrivo degli anni Novanta, Cronenberg regala all’umanità tutta la vera e propria summa del suo concetto: Crash.
Talmente esplicito da essere al limite del guardabile, è una vorticosa discesa nell’ossessione sessuale verso qualcosa di totalmente – ma solo all’apparenza – illogico: il dolore. Il dolore altrui ma anche proprio, una sorta di eso-masochismo in cui si ricerca il piacere negli incidenti stradali. Provocarli, certo, con gusto sadico, ma anche (e soprattutto) viverli: subirli, addentrarsi nelle lamiere, finire spappolati contro a un albero o un guard-rail. E l’elemento più sorprendente, data la narrazione di Cronenberg, è la mancanza di un riferimento alla morte. Ci aspetteremmo il brivido, la ricerca del proprio limite, l’esperienza suicida, il fascino dell’aldilà: niente di tutto questo. Perché come detto, Cronenberg non indaga, non filosofeggia, bensì mostra.
Ed infine, concludiamo questo breve itinere nella filmografia di questo gigante assoluto della celluloide con i lavori più significativi del terzo millennio: l’accoppiata, del tutto indissolubile, A history of violence e La promessa dell’Assassino. Cronenberg stravolge il genere “gangster” portandone alla luce il lato – neanche a dirlo – più morboso. Criminali che delinquono per necessità fisica; delitti che implodono su se stessi destrutturando le dinamiche classiche di qualsiasi film che rappresenti il malaffare. Due pellicole asciutte e insensibili, piene di un odio che più che un sentimento somiglia alla bile, ad un umore proveniente da un fegato putrefatto. Ed ancora una volta si solletica il voyeur che è dentro allo spettatore, presentando ogni omicidio come una vivisezione al rallentatore, una declinazione della malvagità e del limite umano.
Tutto questo, e molto altro, è David Cronenberg.
Michele Simonetti