Di gotico horror in “locus aemoenus”

Se una delle definizioni forse più calzanti della mia terra è citata nel titolo che precede queste righe, l’isola di Sicilia rimane sempre luogo di contraddizioni e contrasti, di buio e di luce, patria di Pirandello e della sua straordinaria esperienza letteraria, preceduta e seguita da scrittori come Capuana, Verga, Tomasi di Lampedusa. Non stupisca quindi anche un lato più oscuro di questa terra del sole, raccontato da scrittori e poeti che hanno rappresentato con forza ed energia uno degli aspetti forse meno noti della cultura siciliana, che ci ha abituato nei secoli a colori, allegria ed esuberante vivacità e voglia di vivere, ma che nasconde, come per una strana forma di contrappasso, anche storie di oscurità e di tenebra. Si potrebbe individuare così un filone di letteratura che racconta di gotico siciliano, figlio sicuramente di una lunga tradizione di racconti popolari, ma anche filtrato attraverso le parole di scrittori del soprannaturale che hanno ambientato le loro storie nel sud Italia e in Sicilia negli anni del Grand Tour, di cui in queste pagine si è fatto già cenno. Forse per il fascino esercitato a lungo dal mondo antico tra il XVIII e il XIX secolo, forse per la ricchezza dei racconti e dei miti pagani, o per gli stessi paesaggi che hanno esercitato una notevole influenza su questi scrittori, da Napoli passando per il castello di Otranto in Puglia e fino in Sicilia, si ritrova un ricco elenco di autori stranieri che hanno ambientato i loro romanzi in Italia.

E se la principessa romana Brambilla vive nel mondo fantastico e visionario del tedesco E.T.A. Hoffmann, scrittore compositore giurista e autore di racconti come “L’uomo della sabbia”, ricordo della minaccia delle madri che ricorrevano all’espediente della venuta dell’uomo della sabbia, un mostro che avrebbe cavato gli occhi ai bambini che si rifiutavano di dormire e che li avrebbe poi dati in pasto ai suoi figli, creature dotate di becchi ricurvi come quelli dei gufi, se Nathaniel Hawthorne nel suo romanzo “La casa dei sette abbaini”, fa scontare a generazioni di abitanti il “peccato originale” commesso da uno dei loro antenati, dobbiamo ad una donna, Ann Radcliffe, la prima opera gotica con il suo libro “A Sicilian Romance”, ambientato nell’isola. Inesattezze a parte (l’autrice colloca il vulcano Etna nei dintorni di Palermo), questa opera, da poco annoverata dall’Oxford Word’s Classics tra i primi romanzi gotici, rimane una pietra miliare di un intero filone letterario e diventerà l’antesignano di una lunga storia di racconti “horror”, come potremmo chiamarli oggi. La Radcliffe racconta le vicende inquietanti e tenebrose, anche se del tutto inventate, di una famiglia messinese, i Mazzini, nobili vissuti nel cinquecento, che nei sotterranei del loro castello affrontano e pericoli e paure, amori impossibili, presenze misteriose terrificanti e vendicative. Pubblicato in modo anonimo nel 1790, riesce a catturare immagini affascinanti di un mondo sconosciuto e fosco che vive nell’isola; con questa opera si sono confrontati anche gli scrittori siciliani.

Storie macabre raccontate da grandi autori, come Tomasi di Lampedusa e la sua Ligheia, la sirena che ammalia il professore La Ciura, e con lui vive una storia d’amore struggente e impossibile.

O come “Il figlio scambiato” dell’immenso Pirandello: l’autore pesca nei ricordi della sua infanzia, nei racconti superstiziosi dei contadini, che rimandano a leggende e miti del nord Europa, e scrive la storia delle streghe che di notte, invidiose e maligne, sostituiscono il figlio sano di una donna e lasciano in cambio un ragazzino malato e deforme. La madre si affida ad una fattucchiera, Vanna Scoma, che scopre che il ragazzino è stato portato nel palazzo del re, dove vivrà tra agi e ricchezze solo a patto che il bambino deforme vivrà e starà bene. Ma il bambino sano troverà il modo di riunirsi con la madre che tanto lo aveva cercato, poiché, nonostante abbia un trattamento regale, si sente infelice e malato nell’anima, privato di qualcosa a cui non può rinunciare.

E sempre attingendo al patrimonio folcloristico, anche altri autori hanno immaginato racconti dello stesso genere: Verga racconta come “il dì dei Morti – nell’ora in cui le mamme vanno in punta di piedi a mettere dolci e giocattoli nelle piccole scarpe dei loro bimbi, e questi sognano lunghe file di fantasmi bianchi carichi di regali lucenti, e le ragazze provano sorridendo dinanzi allo specchio gli orecchini o lo spillone che il fidanzato ha mandato in dono per i morti “– un prete sepolto da cent’anni nella chiesuola abbandonata, si levasse dal cataletto, colla stola indosso, insieme a tutti gli altri che dormivano al pari di lui nella medesima sepoltura, colle mani pallide in croce, e scendessero a convito nella caverna sottostante, che chiamavasi per ciò la Camera del Prete”, per celebrare messa insuffragi agli annegati in mare, quel mare che tanta parte ha avuto nella produzione verghiana.

E sempre Verga, nella novella “Malaria”, descrive con puntuale resoconto quasi giornalistico gli effetti devastanti della malaria su “bambini già pallidi e disfatti”, di contadini “con il sudore della febbre che lascia stecchito qualcuno sul pagliericcio”, vivi ma già praticamente morti che camminano.

Sicilia gotica e oscura come nei racconti del Beati Paoli, un cult della letteratura popolare, lungo romanzo scritto da Luigi Natoli, che usò lo pseudonimo William Galt, apparso sul Giornale di Sicilia negli anni dal 1909 al 1910, dove si narra di intrighi e fattucchiere, bambini perduti e ritrovati, sette segrete composte da uomini vendicativi che si riunivano in segreto nei sotterranei della città di Palermo in una “cuncuma”, termine dialettale che indica una riunione o compagnia di uomini. Il lungo racconto probabilmente fa riferimento ad un gruppo di persone, tra cui molti notabili e aristocratici, riuniti in una specie di confraternita che aveva come scopo il vendicare i torti subiti, ma non esistono riscontri storici che ne possano affermare l’esistenza, così come scrive il Pitrè. Il romanzo comunque ha forti connotazione gotiche, nelle descrizioni e nello svolgersi degli avvenimenti e ha rappresentato uno dei romanzi d’appendice più popolari dell’intero Novecento.

E se l’immaginazione è il luogo sicuro dove rifugiarsi per sfuggire alla realtà, i racconti di Luigi Capuana intitolati “Il Vampiro” e “Fatale influsso”, ne rappresentano un esempio: l’autore di Mineo, sicuramente più noto al grande pubblico per i suoi racconti per bambini, ma anche “verista di giorno e occultista di notte”, racconta di un caso strano di sonnambulismo, dell’incontro con un vampiro di due sprovveduti, di fantasmi e forze soprannaturali, sulla scia dei racconti di Mary Shelley e di Bram Stoker.

E mi piace chiudere queste righe tornando a Luigi Pirandello che nel suo “Male di luna” descrive uno dei temi più cari al mondo siciliano, retaggio di una tradizione che affonda le radici nel mondo greco e romano: la licantropia dal gr. λύκος “lupo” e ἄνϑρωπος “uomo”, cioè uomini che nelle notti di luna piena vengono trasformati in “lupi panari”, locuzione dialettale che suscita sgomento e orrore insieme. Pirandello raccoglie questa lunga tradizione orale e ci narra della povera Sidora, moglie di Batò, che assiste terrorizzata alla trasformazione del marito :“Asserragliata dentro, tenendosi stretta come a impedire che le membra le si staccassero dal tremore continuo, crescente, invincibile, mugolando anche lei, forsennata dal terrore, udì poco dopo gli ululi lunghi, ferini, del marito che si scontorceva fuori, là davanti la porta, in preda al male orrendo che gli veniva dalla luna, e contro la porta batteva il capo, i piedi, i ginocchi, le mani, e la graffiava, come se le unghie gli fossero diventate artigli, e sbuffava, quasi nell’esasperazione d’una bestiale fatica rabbiosa, quasi volesse sconficcarla, schiantarla, quella porta, e ora latrava, latrava, come se avesse un cane in corpo, e daccapo tornava a graffiare, sbruffando, ululando, e a battervi il capo, i ginocchi”.

Una notazione prima di chiudere: il termine “panaro” deriva dal greco πᾶν, παντός, e sta indicare la capacità mostruosa dell’uomo trasformato in bestia di distruggere tutto e annientare qualunque cosa gli stia accanto.

Adriana Antoci