Esiste una categoria dell’anima, una dimensione della mente che nasce dall’osservazione attenta e intima di un mondo straordinariamente imperfetto e per contraddizione di termini bellissimo. Sicilianitudine si potrebbe chiamare, creando un neologismo che però raccoglie l’essenza di un’isola intera. Mare aperto e montagne innevate, luce e tenebre, incanto e canto, storia che si confonde con il mito. La conseguenza logica di tale abbagliante visione è l’interesse che ha suscitato questa terra in filosofi, scrittori e poeti, da sempre. In queste righe ci si concentrerà sulla presenza in Sicilia di un grande del novecento, quel Giovanni Pascoli poeta delle piccole cose, degli αἴτιον di memoria callimachea, del fanciullino che ognuno di noi conserva nelle pieghe dell’anima, della purezza quasi maniacale del verso, dell’uomo prima che del poeta.

Pascoli, poeta già riconosciuto di chiara fama, arrivò in Sicilia, a Messina, nel 1898, dopo aver ricevuto l’incarico di docente di Letteratura Latina presso l’Università. In questa terra che attraversa l’anima trascorse “i cinque anni migliori, più operosi, più lieti, più raccolti, più raggianti di visioni, più sonanti d’amore”, come scrisse lui stesso qualche anno più tardi in una lettera indirizzata a Ludovico Fulci di Majano. Eppure il primo impatto con l’isola delle meraviglie non fu dei migliori. Infatti, sia lui che la sorella Maria, chiamata affettuosamente Mariù, appena arrivati contrassero il tifo, probabilmente dopo aver mangiato delle cozze avariate. Se a questo si aggiunge la scelta infelice di una casa in affitto poco confortevole, si comprende bene perché Maria in una lettera inviata alla sorella Ida faceva chiaramente capire come “il primo anno a Messina rischiava di essere anche l’ultimo”. Dopo le vacanze estive, infatti, fu solo il poeta a ritornare a Messina, lasciando Castelvecchio e il mondo che tanta parte aveva avuto nella sua produzione poetica. Giunto in città, prese in affitto un appartamento più grande e più comodo, che lui definì “il più bell’alloggio di tutta Messina”, con una vista strepitosa sull’Aspromonte da un lato e sul forte Gongaza dall’altro e là lo raggiunse la sorella.

Nei quattro anni successivi, prima del suo rientro a Bologna perché destinato a succedere a Giosuè Carducci nella cattedra di Letteratura Latina, il poeta scoprì un mondo di visioni, e di poesia, di delicatezza, talmente pieno e ricco di gentilezza e di curiosità che invitarono il poeta a guardare e osservare con l’incanto del fanciullino libero dalla zavorra e dai pesi della quotidianità. Attratto dal Fretum siculum, quel mare dal colore così penetrante che “se ci tuffi una mano, gocciola azzurro”, Pascoli amava passeggiare in compagnia di Manara Valgimigli, suo collega, lungo la Palazzata, la Pescheria, la spiaggia di Maregrosso, incantato da una Sicilia mitica e immaginifica e tenendo fede alla poetica del fanciullino invita i messinesi ad offrire fiori ai bambini, poiché “tutta un fiore è la vostra campagna”. Fiori e non pane chiedevano i ragazzini quando lo incontravano e lui nella loro intatta bellezza ritrova l’eco del fanciullino, capace di meravigliarsi delle piccole cose.

Il poeta del simbolismo amò tutto di questa isola incantata, da Zancle con la sua falce adunca che si specchiava nel mare, al “bel monte Peloro verde di limoni e glauco di fichidindia, ai tramonti sull’Aspromonte che, agli occhi, si colmano di inesprimibili tinte”. In questi anni Pascoli visse uno dei periodi più ricchi dal punto di vista di produzione poetica e letteraria. Qui nascono poesie che fanno parte del nostro quotidiano, recitate a memoria sin da ragazzini, come “L’aquilone” o “Le ciaramelle”, dove elementi sonori e visivi si mescolano in una coreografia di straordinario impatto: “suono di chiesa, suono di chiostro, suono di casa, suono di culla, suono di mamma, suono del nostro dolce e passato pianger di nulla”.
In Sicilia, dove “giunge chi sogna, chi sogna e apre le bianche vele ai venti nel tempo oscuro, in dubbio se all’aurora l’ospite lui ravvisi, dopo venti secoli, ancora”, il poeta perfezionò anche la stesura dei saggi danteschi e nel mare di Reggio Calabria, “pieno di voci… dove ululano ancora le Nereidi obliate in questo mare, e in questo cielo spesso ondeggiano pensili le città morte. Questo è un luogo sacro, dove le onde greche vengono a cercare quelle latine”, trovò l’ispirazione per raccontare dell’ultimo viaggio di un Ulisse, non più giovane e aitante, ma ormai vecchio e stanco che trova la sua ultima spiaggia ad Ogigia, presso le rive abitate da Calipso, che, “stupì, frastuono udendo nella selva” e corre in preda ad un presentimento che diventa certezza quando trova riverso sulla battigia il corpo di Ulisse dove le onde lo avevano trascinato: “Era Odisseo; lo riportava il mare alla sua dea; lo riportava morto alla nasconditrice solitaria, all’isola deserta che frondeggia nell’ombelico dell’eterno mare”. (da Poemi conviviali, l’ultimo viaggio, canto XXIV). Non più eroe, di cui il mondo non ha bisogno, ma semplicemente un uomo.

DI questa terra di Sicilia che, citando Goethe; “è la chiave di tutto”, il professore Pascoli riesce a cogliere l’essenza, il linguaggio più intimo, gli aspetti contradditori e la gentilezza poetica che lui riporta nei suoi scritti: “Tale potenza nascosta donde s’irradia la rovina e lo stritolio, ha annullato qui tanta storia, tanta bellezza, tanta grandezza. Ma è rimasta come l’orma nel cielo, come l’eco nel mare. Qui dove è distrutta la storia, resta la poesia.” Frasi profetiche, scritte dal poeta nel 1902, quando la sua permanenza in Sicilia ebbe termine. Ma sia lui che sorella rimasero legati all’isola e la notizia del terremoto del 1908, che distrusse praticamente tutta la città, colpì profondamente i due, che avevano continuato a mantenere legami profondi con Giovanni Sgroi, il portiere dello stabile dove avevano abitato. La famiglia del portiere scampò miracolosamente al sisma e l’edificio, definito dal poeta profeticamente “sicuro contro il terremoto”, quasi come testimonianza della vita vissuta da Pascoli in Sicilia, rimase in piedi e dal 2008, nel centenario dell’anniversario del terremoto, per iniziativa del Comitato Cittadino “100 Messinesi per Messina 2008” è stata realizzata una targa commemorativa collocata accanto al portone d’ingresso. Di recente l’edificio è stato ristrutturato e acquistato dalla Regione Siciliana per essere inserito nel circuito della “Rete regionale delle case museo”.
Adriana Antoci