Di mostri e apparizioni inquietanti

La lunga tradizione orale che affonda nei millenni, il gusto ionico del novellare che si sovrappone e si mescola con il piacere di narrare arrivato sull’isola di Sicilia al tempo degli arabi non poteva prescindere da racconti e descrizioni di mostri e delle loro apparizioni improvvise. Se a questa premessa aggiungiamo il gusto dell’iperbole tipico del mondo siciliano, quella che viene fuori è una straordinaria commistione di miti, leggende, racconti orali, tradizioni importate e mediate in un coacervo di grande fantasia. Esiste comunque sempre un filo rosso che lega questi racconti “mostruosi”. Gli esseri che appaiono e scompaiono all’improvviso devono essere grandi, pericolosi, assetati di sangue. Brutti della bruttezza che deriva dalla cattiveria, vivono quasi sempre in anfratti nascosti alla luce del sole, vicino a pantani e fiumi e catturano le vittime inconsapevoli della loro presenza fino a quando si ritrovano faccia a faccia con loro, uccisi forse prima dal terrore della loro vista che dal mostro stesso.

Presente da secoli nelle storie che si tramandano, tra i più noti troviamo il sugghiu, una sorta di creatura anfibia, miscuglio di forme umane e animalesche, più vicino ad un rettile, con il corpo ricoperto da squame verdastre, volto grinzoso e deformato con l’aspetto di un topo e con gli occhi di cane feroce e una piccola criniera sul capo. Già questa rappresentazione sembrerebbe abbastanza confusionaria, ma a queste descrizioni si aggiungono anche un portamento antropomorfo, una lunghezza che varia dai quaranta centimetri ai due metri, una bocca piena di ventose che gli permette di strappare via la faccia al malcapitato che aveva la sventura di incontrarlo.

Avvistato in diverse parti della Sicilia, da Torre Archirafi fino a Riposto, da Brolo a Ragusa passando per Agrigento, potrebbe essere il risultato di antichi racconti di mare legati alla presenza di mostri marini, legati al mito del “ghul”, un cadavere non-morto le cui prime descrizioni arrivarono in Sicilia al tempo della dominazione fatimide, tra il X e il XII secolo, una specie di zombie ante litteram, che, consapevole della sua deformità e della sua bruttezza, vive nascosta, emettendo orribili versi a metà tra un raglio d’asino e un grugnito di maiale, con addosso le cicatrici delle ferite procurategli dalle pagaiate dei marinai che avrebbero provato senza successo a difendersi dal mostro.

Se in questi racconti suggestivi vogliamo trovare un fondo di verità, potremmo trovarla nella pinacoteca Zelantea di Acireale, dove sono custoditi reperti di due grossi rettili molto simili alle iguane giganti. Da un miscuglio di racconti arabi, miti greci e riferimenti biblici nasce la storia di un altro mostro, la Marabecca, creatura perfida che vive nei pozzi e nelle cisterne d’acqua, lontana dalla luce del sole che odia e dal calore da cui rifugge. Si narra che abbia una voce bellissima e suadente e che attiri bambini sul bordo del pozzo in cui vive, promettendo loro doni bellissimi e facendoli poi precipitare nell’abisso in cui dimora. Una storia che richiama la donna che accolse il servo di Abramo, incaricato di trovar moglie per il figlio, al pozzo della città di Harran. La donna si chiamava Rebecca, nome che significa “corda, legame”, quasi ad indicare in senso metaforico colei che lega, che irretisce. Ma Marabecca, chiamata talvolta Menalonga, Vecchia del Pozzo o Mammadrava potrebbe rimandare anche ai culti praticati in onore della dea Diana dalle donne dell’antica Grecia che si riunivano di notte intorno ai pozzi per cercare di intravedere la forma della luna cara alla dea riflessa nell’acqua. Queste donne erano chiamate “Danare”, termine dialettale che venne alterato in “lanare” quando, questo culto in onore della dea venne condannato dalla Chiesa perché eretico. Marabecca potrebbe anche ricollegarsi al mondo arabo e potrebbe derivare da “marabutto”, che sta ad indicare un personaggio dotato di poteri straordinari.

Molto più razionalmente, il suo mito e i racconti che ne derivano possono riferirsi al terrore ancestrale di cadere in un pozzo e di morirvi dentro (in ogni casa di campagna e in ogni masseria di Sicilia esisteva una cisterna piena d’acqua, per non parlare di quelli disseminati nelle campagne) e, in senso lato, alla paura ancestrale del male assoluto, quello da cui si vuole fuggire ma che continua ad ammaliare, un buco nero nel quale perdersi. Nelle campagne intorno a Caltanissetta ed Enna sembra vivesse la Biddrina, altro essere mostruoso a forma di drago, capace di bere l’acqua sulfurea delle miniere intorno alla città, di cui erano a conoscenza già gli antichi romani. Questo grosso serpente rimaneva nascosto sotto terra per sette anni, cibandosi dei “carusi”, i bambini che lavoravano nelle miniere per estrarre lo zolfo. Alla scadenza del settimo anno, veniva fuori dalle viscere della terra e si aggirava per le campagne soffocando con le sue spire chiunque incontrasse sul suo cammino.

Riferimenti potrebbero trovarsi nella vita durissima dei minatori delle zolfare, considerati una categoria a parte, fuori dal contesto urbano e persino dal mondo religioso tanto che loro, che non erano nemmeno ammessi in chiesa, crearono un “Venerdì Santo alternativo” con tanto di processione, candele, vare e stendardi, processione che adesso è rientrata a pieno diritto nel patrimonio culturale di Caltanissetta e di Enna ed è diventata la Processione dei Misteri conosciuta in tutto il mondo, insieme a quella di Trapani. Due notazioni prima di chiudere: il termine biddrina viene ancora usato per indicare donne particolarmente cattive capaci di uccidere per gelosia mariti e i figli delle altre donne.

In ultimo, dei “carusi” che lavoravano nelle miniere di zolfo ha scritto il grandissimo Luigi Pirandello, quando nella novella ”Ciaula scopre la luna”, racconta di come il garzone della zolfara, abbruttito da lavoro, allontanato da tutti, risale dalla miniera e all’improvviso si accorge che davanti a lui:

“Grande, placida, come in un fresco, luminoso oceano di silenzio, gli stava di faccia la Luna. …E Ciàula si mise a piangere, senza saperlo, senza volerlo, dal gran conforto, dalla grande dolcezza che sentiva, nell’averla scoperta, là, mentr’ella saliva pel cielo, la Luna, col suo ampio velo di luce, ignara dei monti, dei piani, delle valli che rischiarava, ignara di lui, che pure per lei non aveva più paura, né si sentiva più stanco, nella notte ora piena del suo stupore”.

Adriana Antoci