Di musei e di chiese

Ci sono posti nascosti agli occhi dei più, celati dietro mura e statue barocche, coperti da facciate ampollose e capitelli corinzi, posti che raccontano in silenzio storie straordinarie di coraggio e di speranza. Ragusa Ibla è conosciuta come città patrimonio dell’Unesco, con la ricchezza del suo barocco, l’ultimo in ordine di tempo, quello più ridondante, che vira già verso il rococò. Chiese e palazzi costituiscono un unicum nella val di Noto, faticosamente e caparbiamente ricostruito dopo il “tremuoto ranni” del 1693.

Tra le sue trentatrè chiese, molte delle quali oggi distrutte o sconsacrate, la Chiesa di san Giuseppe a piazza Pola rappresenta un mondo a parte, una realtà diversa nello scorrere del tempo e nelle corse frenetiche di giorni pieni di impegni. Incastonata all’interno di una piccola piazza, quasi un cortile più grande, nel quale confluiscono le tre direttrici attraverso le quali si dirama la pianta urbanistica di Ibla, circondata da palazzi nobiliari, adagiata nell’angolo più interno e protetta da una facciata ricca di statue di grate di ferro, a voler lasciare il mondo esterno fuori, la Chiesa ospita uno dei gioielli barocchi più incredibili di questa mia terra: a croce latina, con un pavimento in pece bianca e nera, vanto della nostra zona, con il coro silentium che ospita le preghiere e i canti delle suore di clausura che hanno fatto di questo angolo di mondo una dimensione diversa, unica.

Qui il tempo sembra essersi fermato, come modificato, passando dalla dimensione orizzontale delle corse frenetiche inseguendo le lancette di un orologio che corre sempre più in fretta di noi ad una dimensione verticale, che richiede silenzio, riconversione in se stessi, raccoglimento, momenti di intimità. La Chiesa fa parte di un complesso edilizio più grande, perché vi è annesso anche un Monastero e, fino al 1866, anno dell’abolizione della manomorta ecclesiastica, anche un educandato. Il Monastero e la Chiesa hanno una storia antica, che affonda le sue origini nel lontano 1611, quando Carlo Giavanti, barone di Buxello e Saccubino e la moglie Violante Castellet, per impetrare la grazia della guarigione del figlioletto ammalato, si proposero di erigere, con un regolare atto notarile, sui propri terreni un Monastero, dedicato al culto di san Giuseppe e che ospitasse anche le monache di clausura. Non solo: all’erigendo Monastero vennero assegnati due fiumare, un giardino, una bottega, un magazzino per i granai, per il sostentamento delle monache che fossero venute ad abitarvi. Il barone Giavanti non riuscì a vedere terminata la sua opera perché morì nel 1606 e si deve alle continue pressanti richieste rivolte al Vescovo di Siracusa da parte dei fideicommissari nominati allo scopo se nel 1611, finalmente, tre nuove monache, provenienti dal monastero benedettino della ss. Annunziata di Buccheri fecero il loro ingresso nel convento, introducendo così la regola di san Benedetto e di santa Scolastica insieme all’adorazione perpetua del SS. Sacramento, l’ora et labora che racchiude l’essenza stessa della vita monastica.

Alterne vicende, guerre, terremoti, malattie, e anche, perché no, invidie e tentativi di appropriazione dell’ingente patrimonio della Chiesa e del Monastero, non sono stati capaci nel corso di quattro secoli di chiudere l’esperienza della monache di clausura di Ibla. Sono ancora là, punto di riferimento per tutta la comunità iblea che da sempre ha trovato conforto e aiuto. Molte donne sono vissute fra queste mura intessute di storia: aristocratiche che dopo l’educandato nel convento vi rimanevano come religiose, ricche vedove dotate che rifiutavano di vivere nel mondo e si dedicavano alla vita contemplativa portandosi dietro la propria cameriera personale, nobili fanciulle che dovevano entrare in convento e rimanervi come monache di clausura, secondo le leggi non scritte del maggiorasco che ricordano a tutti noi la triste storia della manzoniana monaca di Monza. Oggi le vocazioni, pur se in calo notevole, rimangono uno dei cardini del monastero, che ospita le monache di clausura, ormai anziane e le novizie che iniziano il loro cammino spirituale sotto la guida di una donna eccezionale, di grande carattere e cultura e di forte temperamento: madre Emanuela Piazza, o.s.b. a.p., madre priora del convento di San Giuseppe. È stata lei a farmi da cicerone lungo la visita al museo “Obsculta”, nato per suo volere in una parte del convento: inaugurato nel 2011, racconta i quattro secoli di presenza delle monache a Ibla, in una mostra appassionante ricca di reperti e di immagini, che fanno rivivere le regole e il modo di “essere” monaca di clausura, lontana al mondo, ma calata all’interno di esso. Da Matilde de Bar, l’ispiratrice dell’adorazione perpetua fino a madre Beniamina, percorrendo i dodici scalini di marmo bianco che indicano l’aspirazione alla santità attraverso la regola di san Benedetto, chi attraversa queste sale rimane affascinato da un mondo così lontano dalla vita di tutti i giorni, eppure così vicino ai suoi cambiamenti, alle gioie e ai dolori di ciascuno di noi, un cosmos accanto al caos.

Due curiosità aneddotiche prima di chiudere: per antica tradizione mai perduta le monache del monastero di san Giuseppe si sono da sempre occupate della sistemazione, del restauro e della pulitura dei corredi delle ragazze in vista del loro matrimonio. Anche i vestitini di battesimo che si tramandano di generazione in generazione vengono ripuliti e sistemati da queste stesse mani. Ancora: l’educandato non esiste più, ma fino a qualche anno fa venivano impartite lezioni di pianoforte da una monaca, suor Matilde, che ancora adesso, anziana e malata, ricorda perfettamente tutti i suoi alunni. Chi scrive ha avuto modo di frequentare queste grandi stanze, ha vissuto di silenzio e di arricchimento personale, e ha ancora un vivido ricordo di madre Assunta, monaca centenaria, che si sedeva nella grande terrazza del convento e aspettava che gli uccellini venissero a beccare dal suo grembiule le mollichine di pane: icona di un mondo fatto di ora et labora.

Adriana Antoci