«Sai, picciriddu, cosa è una truvatura?»
«Sai, bambino mio, cosa è la truvatura?»
Molti racconti della mia terra iniziano così. In questa frase è racchiusa l’anima mundi di un territorio vecchio di millenni, di storia, di invasioni, di battaglie, di tiranni e di sultani, di miseria e di ricchezza, di orgoglio e di umiltà, di cattiverie gratuite e di bontà. In dialetto siciliano la parola “truvatura” significa trovare qualcosa di immensamente prezioso, ma nascosto, dimenticato o lasciato da secoli. Truvatura o attruvatura indica anche l’atto della scoperta di un tesoro che di colpo può cancellare miseria e povertà per sempre, per tutte le generazioni a venire. In un mondo che sconosceva lotterie e gioco on line, la leggenda di uomini, poveri oltre ogni immaginazione, di colpo diventati ricchi come Creso, ha riempito le notti serene d’estate sulle aie durante le operazioni di mietitura e i freddi giorni di inverno davanti ad un braciere acceso. Se si volesse cercar un fondo di verità e anche di razionalità, si potrebbe trovare nel succedersi di scorrerie di pirati, di invasioni di dominazioni straniere, di imposizioni fiscali mai tollerate, di nascondigli di ladri e, non ultime, anzi, anche di liti tra parenti, le più terribili. Così, con ogni probabilità, i siciliani impararono a nascondere le proprie sostanze per sottrarle ai predoni o ai dominatori di turno.
Questa la realtà, plausibile. Ma nella mia terra tutto si ingigantisce, cambia, muta a seconda della fantasia incredibile di chi vi abita, e queste fortune nascoste per necessità diventarono col tempo splendidi tesori, immense ricchezze, favolosi patrimoni. Così si è passati facilmente dalla realtà alla leggenda e poi al mito. Nascono in questo modo i racconti delle «truvature», ricchezze enormi legate a incantesimi e magie, spesso rivelate in sogno da qualche parente defunto, protette, dentro caverne muschiose e vecchi passaggi sotterranei di chiese, conventi e casa di campagna isolate, da serpenti enormi, da streghe malvage e nemmeno a dirlo, di aspetto orribile, o da «pircanti», gnomi che fissano immobili la «truvatura» e che richiedono per «spigniari» il tesoro (per liberare le immense ricchezze) prove di coraggio, di forza e anche, molte volte, riti di sangue. (Non per niente una delle frasi più radicate nella filosofia popolare recita: sangu ciama sangu, cioè sangue chiama sangue). Un grande antropologo siciliano, Giuseppe Pitrè, medico, letterato, antropologo palermitano nel suo libro “Usi e costumi e pregiudizi del popolo siciliano”, pubblicato nel 1889, dedica ampio spazio a questi racconti, mediando dalla tradizione orale. I suoi scritti rappresentano una pietra miliare nella letteratura siciliana per l’accuratezza con cui conduce le sue ricerche e per l’enorme mole di notizie che riporta.
Ognuno di questi racconti ha uno schema preciso: il tesoro viene nascosto in luoghi isolati e impervi, protetto da sentinelle che vegliano giorno e notte, racchiuso dentro una maledizione lanciata da chi è stato costretto a lasciare le proprie ricchezze. Per sciogliere questo incantesimo, occorre seguire un rituale ben preciso, sempre a mezzanotte e sempre con la luna piena. Vengono richieste prove di grande coraggio e di grande forza d’animo necessarie per affrontare grandissimi rischi, ma, in certi casi, fame endemica e miseria millenaria avrebbero fatto superare persino paura e tabù, come vedremo in seguito. La mescolanza di dominazioni diverse dalla fantasia dei greci fino alla tradizione novellistica degli arabi ha creato un pabulum variegato e variopinto che racconta di queste truvature e di chi li ha cercate, ovviamente senza successo. Perchè la delusione di non potersi appropriare di tanto bene e di tanta agiatezza è tema ricorrente: chi si avventura a cercare oro e monili preziosi deve superare prove difficili, non interrompere il cerchio magico all’interno del quale deve muoversi e non sbagliare nemmeno un piccolo passaggio per ottenere il premio.
Basta un minimo errore, una piccolissima svista e il tesoro va in fumo, tramutandosi all’istante in gusci di lumache vuote. Tra i rituali più strani e per certi versi ridicoli c’è quello che si racconta nella Contea di Modica, dove, pare, sia nascosto un tesoro di inestimabile valore: per impossessarsi di tanto ben di Dio, occorre sdraiarsi nudi e a bocconi, tenendo un topo morto in una mano e un serpente morto nell’altra, rimanendo immobili per ore, ignorando rumori strani, canto del gallo, apparizioni spaventose. Alla fine occorre recitare uno scongiuro che quasi nessuno conosce e, se si seguono tutte queste indicazioni, il tesoro appare come per magia. Peccato solo che nessuno sappia di preciso dove si trovi con esattezza all’interno di un territorio vasto quasi quanto la provincia di Ragusa.
La Sicilia è piena, stando a questi racconti, di caverne delle meraviglie ai confronti delle quali il tesoro trovato da Aladino diventa misera cosa: chiocce e pulcini di oro, centinaia di muli carichi di oro, monete, diamanti e rubini attendono, immoti, che qualcuno se ne impossessi. Da Messina fino a Trapani, passando per l’entroterra, ogni paese ha la sua “truvatura” fino ad arrivare a Ragusa e nella Sicilia meridionale. I panorami così frastagliati, ricchi di boschi e caverne umide, di castelli, di palazzi nobiliari, e masserie isolate, di strade impervie e di paesi arroccati hanno contribuito ad alimentare leggende che nel corso dei secoli si sono arricchite, modificate, ritoccate e cambiate. Delle leggende delle truvature si sono impossessati persino cantautori siciliani. Mario Venuti ha dedicato una canzone alla truvatura chiamata bancu di Disisa, nei pressi di Monreale, dove esiste un tesoro immenso custodito da spiriti che lo vegliano trascorrendo il tempo giocando a carte e che, stranezza nei racconti leggendari, non fanno alcun male a chi si avventura a cercare il tesoro. Ma solo perché ogni volta che un avventuriero trova un manufatto prezioso, lo confondono al punto tale che costui non riesce a trovare l’uscita se non lasciando il tesoro agli spiriti che, imperterriti, continuano a giocare a carte.
Ma di ben altro tono è la leggenda di Clementuzzu: Giuseppe Pitrè nel suo già citato libro parla di un tesoro nascosto dentro la Chiesa di Scrofani, in territorio di Modica. Per prendere tale tesoro, occorre che una madrina uccida il proprio figlioccio e ne mangi per intero il fegato crudo sul posto. Al di là di considerare questo racconto come un ricordo non tanto velato di sacrifici umani che col tempo sono stati sostituiti da sacrifici animali, va comunque ricordato, per amore della verità, che esiste un ampio carteggio tra il Pitrè e Serafino Amabile Guastella, etnografo e antropologo chiaramontano che racconta di un processo intentato intorno al 1890 per un fatto di sangue gravissimo accaduto a Modica, dove una donna, madrina di un bambino di due anni di nome Clemente, aveva rapito il bambino alla madre, lo aveva portato in chiesa dove, con la complicità di un’altra donna, lo aveva ucciso proprio sulla lastra dove si trovava il tesoro. Ma non riuscirono a mangiarne il fegato e per questo il tesoro non potè essere “spigniato”.
Modica come Ragusa, dove esiste la grotta della crapa d’oro, Messina come Mondello, Caltabellotta come Capaci. Ma per trovare il tesoro che non c’è seguire la “seconda stella a destra e poi diritti fino al mattino”, fino all’Etna dove esiste, a quanto pare, la truvatura delle truvature. Ma questa è un’altra storia.
Adriana Antoci