âIl pranzo fu allegro come quello dell’anno precedente… Si ciarlò del castello, di memorie storiche, dei Normanni e dei Saraceni, della pesca delle acciughe e dei secoli cavallereschi, e tornarono in campo le vecchie leggende, e si raccontò di nuovo a pezzi e a bocconi la storia che Luciano avea raccontato la prima volta in quel luogo medesimo, e che alcuni nuovi venuti ascoltavano con aviditĂ , digerendo tranquillamente, ed assaggiando il buon Moscato di Siracusaâ.
Giovanni Verga, Le storie del castello di Trezza
Nello straordinario pantheon di divinitĂ greche, tra dei, semidei, ninfe, titani, il culto di Dioniso, dio del vino e dellâebbrezza, è uno dei piĂš diffusi e importanti, fortemente legato alla produzione vitivinicola, al culto della terra intesa come mezzo di sostentamento, e per questo vicinissimo anche ai culti di Demetra e Persefone.

Non stupisca quindi la suggestiva ipotesi di un dio del vino autoctono della terra di Sicilia, dove la coltivazione della vite è sempre andata di pari passo con quella dei cereali. Della presenza di divinitĂ autoctone passate e mediate poi attraverso i culti importati dai greci sullâisola, in queste pagine si è ampiamente parlato.
Nelle righe successive si concentrerĂ lâattenzione sul culto di Dioniso in una particolare aerale della Sicilia e della produzione vinicola che ne deriva, citata da autori del mondo antico e non solo e che continua a dare i suoi frutti fino ai giorni nostri.
Dobbiamo fare un passo indietro di molti secoli, ritornando al 2000 a.C. quando cioè i primi sicani e siculi si dedicarono alla coltivazione della vite e fecero di Dioniso il dio del vino.

In particolare, nellâareale dei monti Nebrodi il culto si lega anche ai riti orfici citati in Platone e alle tradizioni indigene che furono ellenizzate dai coloni che giunsero in Sicilia provenienti dalle Cicladi, dove per altro il culto di Dioniso o Bacco era conosciuto.
Uno degli appellativi con cui viene ricordato Dioniso è âNebrodesâ, cervo, cerbiatto (da qui il nome dei monti).
I boschi di questa zona non solo erano popolati da questi animali ma rappresentano essi stessi il mito fondante del luogo che diventa âνΎβĎĎĎâ, cioè cervo, lâunico animale immune al veleno degli alberi di tasso, di cui sono tuttora ricchi i monti Nebrodi, che diventa cosĂŹ un archetipo in quanto da un lato inattaccabile da veleni mortali e dallâaltro il cervo sacrificale ucciso e smembrato durante i riti dionisiaci dalle Menadi, le sacerdotesse di Dioniso in preda allâ áźÎ˝Î¸ÎżĎ ĎΚιĎÎźĎĎ, cioè allâinvasamento che derivava dalla presenza del dio al punto tale da renderle folli. (occorre ricordare che nel mondo greco non sempre la follia era considerata una malattia, bensĂŹ una manifestazione della presenza del divino nellâumano, come testimoniano la Pizia o le pitonesse o gli stessi indovini).
La forte presenza del culto dionisiaco è la diretta conseguenza, o forse lâantefatto, per la grande varietĂ di coltivazioni viticole della Sicilia, di terroir del vulcano Etna fino al passito di Pantelleria o ai vini dolci delle Eolie, passando per i Nerelli, i Mascalese e i Neri dâAvola.

Dobbiamo ad un grande archeologo siracusano, Saverio Landolina, lo scopritore della magnifica Venere Anadiomene la cui devastante bellezza possiamo ammirare oggi al museo Paolo Orsi, uno studio accurato delle fonti, da Esiodo fino a Teocrito o Plinio il vecchio, che hanno dimostrato la produzione del vino Pollio, considerato il vino piĂš antico dâItalia, dal quale discendono altri vitigni, quali il Moscato siracusano.
Dagli studi del Landolina emerge anche il perchĂŠ del nome Pollio: si chiamava cosĂŹ dal nome di un mitico re di Siracusa, Pollis, che ricavò questo vino dallâuva Biblina importata dalla Tracia, dove il culto di Dioniso era ben conosciuto e che si sovrappone cosĂŹ agli antichi culti misterici giĂ presenti in Sicilia.
Lâantico vino Pollio, citato anche da Eliano che ne intesseva le lodi, chiamato anche Biblino, venne importato dai greci ma anche da micenei e fenici nei loro commerci attraverso il âmar colore del vinoâ, prodotto inizialmente nella mezzaluna fertile e nel sud della penisola balcanica, di cui fa menzione Esiodo. Questi navigatori, profondi conoscitori delle viti e della loro coltivazione, probabilmente mescolarono le loro conoscenze con quelle piĂš grezze e rudimentali degli abitanti dellâisola. Il risultato fu straordinario e la produzione del Biblino giĂ due secoli dopo, al tempo di Teocrito, era diffusa in tutta la Sicilia, tantâè che il poeta siracusano nei suoi Idilli lo cita ampiamente, facendo brindare i compagni di gioco e di caccia con un âbicchiere di Biblinoâ, progenitore del Moscato.

Anche se dopo la conquista della Sicilia da parte dei Romani, vennero implementate maggiormente le produzioni cerealicole, la produzione di vini discendenti dal Biblino, come il Mamertino o il Taormina bianco, conosciuti e apprezzati da Giulio Cesare e da Plinio, continuò e continua fino ai giorni nostri passando per il racconto che ne fa anche Dumas nei suoi romanzi, citando ne âI Tre Moschettieriâ e ne âIl conte di Montecristoâ il vino dolce di Sicilia. E la diffusione dei vini dolci come il miele, come racconta Ulisse nellâOdissea, rappresenta ancora oggi una delle eccellenze della Sicilia.
Due citazioni prima di chiudere: a rafforzare il concetto di sincretismo, vale la pena ricordare che a Gratteri, paese sulle Madonie in provincia di Messina, in occasione della festa in onore di San Giacomo, vengono offerti grappoli di uva alla statua del santo portata in processione dai devoti che bevono vino fino a raggiungere un furore collettivo.

Ancora: per non disperdere un patrimonio culturale di cosĂŹ grande importanza e valenza storica, lo scorso anno, dopo una lunga genesi durata quasi venti anni, è nato il Consorzio Doc Mamertino, al quale aderiscono una ventina di aziende vitivinicole dellâareale nord- orientale della provincia di Messina con lâobiettivo di dar valore e implementare le tradizioni millenarie dei vitigni discendenti dal Biblino.
Adriana Antoci