Birmania: diritti umani alla gogna

E’ una vera spina nel fianco Aung San Suu Kyi per il governo militare birmano. Continaumente messa alla gogna per la sua battaglia in favore dei diritti umani La 76 enne, nobel per la Pace, condannata una decina di giorni fa dal tribunale di Myanmar a 4 anni di carcere, due per incitamento al dissenso contro i militari e due per violazione delle misure anti Covid. Aung San Suu Kyi è detenuta fin dallo scorso febbraio, quando i generali hanno deposto il suo governo che è stato una breve parentesi democratica per Mayanmar. La giunta militare ha successivamente aggiunto una serie di capi d’accusa che potrebbero portare ad una condanna di 100 anni. Le accuse sarebbero la violazione della legge sui segreti ufficali, la frode elettorale e la corruzione.

In realtà la donna  viene perseguitata da sempre per la sua battaglia a sostegno dei diritti umani. Non possiamo certo dimenticare che quando ha vinto il Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi era agli arresti. Sono 30 anni che la leader birmana viene considerata un ostacolo al governo della giunta militare per il suo impegno contro l’oppressione nel suo paese. Già suo padre, assassinato nel ’47, era un eroe dell’indipendenza. Da lui Aung San ha ereditato lo stesso impegno politico tanto da partecipare alla nascita del primo vero partito d’opposizione, cioè la Lega Nazionale della Democrazia. Ed è sempre dagli arresti domiciliari che assiste a tutta una serie di eventi relativi al suo paese, dal successo del suo partito alla contestazione dei risultati elettorali da parte dei militari.

Nel 2003 la leader è vittima, con tutto il suo staff, di un’imboscata da parte di bande armate che fece centinaia di vittime tra i sostenitori che erano arrivati nel nord del paese per applaudirla. Lei riesce a scampare all’attacco ma finisce nuovamente dietro le sbarre con l’accusa di aver fomentato la folla per provocare l’incidente. Il suo partito nelle elezioni del 2010 si aggiudica 40 seggi dei 45 che erano in lizza. Sicuramente a suo carico pesa la sua posizione ambigua rispetto alla persecuzione della minoranza musulmana dei Rohingya nwel Myanmar, ma forse un po’ forte è stata la presa di posizione della comunità internazionale che le ha voltato le spalle tanto che Amnesty International le revocherà il premio “Ambasciatore della coscienza” che le aveva dato nel 2009.

Aung San rimane in un certo senso neutrale rispetto alle contestazioni internazionali e lo scorso novembre ottiene un nuovo successo elettorale con numeri che superano quelli del 2015 e che allarmano subito la giunta mulitare che l’accusa di frode. Fino alla destituzione lo scorso febbraio da parte della giunta di Myanmar che riprende il potere e la riporta in carcere. Attualmente sono aperti una quindicina di provvedimenti contro la leader birmana con diverse accuse che potrebbero costarle il carcere a vita.