Ester La Rocca Manari, baronessa di San Germano

Forse in pochi la conoscono eppure la sua vita vale la pena di essere raccontata. Ester La Rocca Manari, baronessa di San Germano nasce a Varese nel 1855 e ben poco si conosce della vita di questa poetessa prima del suo matrimonio con Vincenzo La Rocca, barone di San Germano, appartenente a uno dei rami della potente famiglia che ha avuto grande parte nella vita civile e religiosa della città. Muore a Ibla nel 1927 e ivi riposa nella tomba di famiglia. Conosciamo la sua attività poetica dopo il suo matrimonio e l’arrivo nel palazzo La Rocca, oggi patrimonio Unesco (1,2,3). Nel 1884, per i tipi dell’antica tipografia ragusana di Paolo Miuccio, ha pubblicato una raccolta di versi intitolata “Tavolozza” (4) con 46 composizioni suddivise in 2 parti: la prima intitolata “ Mezze tinte”, la seconda “Tinte calde”.

Nella società iblea del tempo, fondamentalmente maschilista, dove tutta la vita ruotava attorno alle proprietà fondiarie del ceto nobile e dell’alta borghesia e dove le donne avevano un ruolo solo all’interno della famiglia, ed anche questo non comparabile a quello maschile, spicca la presenza di questa “straniera” che dal punto di vista sociale e culturale si differenzia dalle altre signore di alto lignaggio, che frequentava e con le quali aveva rapporti di amicizia.

Palazzo La Rocca di San Germano

La baronessa osserva la società di cui fa parte, ne assorbe l’essenza, la elabora e la riversa nelle sue composizioni,che possiamo sicuramente definire“specchio del suo tempo”con dediche a personaggi, donne e uomini, che hanno avuto un ruolo nella sua vita. Apre la sequela delle poesie quella dedicata a Margherita di Savoia, moglie di Emanuele Filiberto,“ l’astro chinese che da un Padre Missionario regalata ci venne dalla China”, poesia tutta giocata con un filo sottile di riferimento al fiore di cui porta il nome,“ la Margherita”; omaggio ai regnanti, ingentilito dalla leggerezza dei versi. Ma si scosta subito da questa lode arzigogolata e di maniera, e dimostra la sua indipendenza di pensiero e di comportamento sociale con la poesia “Non ci credo”, dedicata al suo maestro di pianoforte, Bartolomeo Dell’Ovo:

Quando seduta al fianco tuo mi guardi

con quei begli occhi, col raggio della stella,

non dirmi che al cor io lancio dardi,

non dirmi che ogni dì io divento più bella,

tengo uno specchio, dove ben mi vedo

non dirlo più, tanto non ci credo

Per quei tempi se non rivoluzionaria una simile sestina era quanto meno sfrontata, certamente lontana dal conformismo che dominava la sua classe sociale. Ma sa anche mettere a posto un corteggiatore importuno e sgradito con la poesia” Carattere senza carattere”

Esiger sempre ed accordar poco…ecco la tempra d’un tal signorino,

carattere impossibile, d’animo piccino, volubile, bisbetico, è bolla di sapone,

è pieno d’aria, è forma d’uomo, è tipo dissolvente

è un essere che si crede—e sa di niente!

Gli amorini, particolare del palazzo La Rocca

Scrive poi delle poesie che dedica alle amiche: alla Duchessa del Palazzo, Albafiorita. Personaggio poliedrico, la Duchessa, ed anche caritatevole; fondò per i poveri l’ospizio di mendicità, con annessa sala ospitaliera a lei intitolata (5), che funzionò sino a quando non fu assorbita dall’Ospedale pubblico. “Duchessa siete cara, pungente, spiritosa, ecco perché cantarvi la Musa mia non osa; e conclude “ vi domando la grazia di fare all’indirizzo di questi pochi versi, l’onor d’un vostro frizzo”. Dedica ancora poesie alla Baronessa di Donnafugata, all’amica Maria Paternò Castello,ad Evelina di Casalgismondo. Alla sua compagna e amica carissima, Clementina Paternò Castello, intitola una poesia “Danza di fiori”: immagina una serra con grandi specchi di Murano che riflettevano le scene che vi si svolgevano, in un tripudio di fiori, e ne passa in rassegna ben 15 specie diverse, tra le quali camelie e azalee, fiori poco conosciuti nella Ibla del tempo. Ed ancora, scrive una deliziosa barcarola “Vieni o caro!” musicata dal Prof Giacomo Zacchi, di Iseo (Brescia) il primo organista dell’Organo Serassi della Chiesa Madre di San Giorgio, situata a pochi passi dal suo palazzo. La sua produzione ha sempre attinenza con la vita e ogni poesia merita l’attenzione del lettore ed un commento critico che non può trovare posto in un così scarno articolo.

Il suonatore di flauto, particolare del palazzo La Rocca

Nonostante la vita agiata e i fasti del suo palazzo, le amicizie altolocate e la considerazione di cui gode la sua famiglia, l’A. manifesta la struggente nostalgia per la sua terra d’origine ed il bisogno, quasi fisico, di colmarne il vuoto per la sua lontananza, con questi bellissimi versi :

“Nostalgia”

Sento un bisogno ardente, indefinibile

Se volgo i guardi e cerco, ovunque incontrano

Rocciosi monti e mare!

Azzurro è l’orizzonte e l’aer tiepido,

Son belli e ardenti gli occhi siculi

E feriscono il core

Ma non son mie, le terre vaste e docili,

dove il piede riposa

sulla mia terra nevosa.

Sento tal vuoto nel mio cuor, terribile,

e splèen e nostalgia

sento un bisogno ardente ed uno spasimo

del sol, della aria mia.

Ed infine, concludo, con l’ammonimento a sé stessa: la fine della vita non è la fine di tutto.

“Spes, Ultima Dea”:

Mi trovai l’altra notte in cimitero

Vagante pei sepolcri; copriva il cielo un nembo nero nero…

Ed una voce debole lontana:

Siam la fiamma dei vivi,

noi siam la fiamma della vita umana

taluna è per morir, l’altra è splendente

vedi la tua, mortal,

se l’avvenire vuoi aver presente.

Andrea Ottaviano