Giufà, tra tradizione orale e letteratura

Secondo qualcuno Giufà non è mai morto,

è riuscito a scappare alla morte talmente tante volte

che ancora sta scappando

e ancora gira per il mondo

Questi sono versi tratti da un libro di Ascanio Celestini, attore e scrittore romano, pubblicati nel suo libro “Cecafumo”, edito da Donzelli.

Infatti, Giufà non può morire, perché è un personaggio di fantasia, nato da intrecci di racconti, da una lunghissima tradizione orale che risale alla conquista della Sicilia da parte degli Arabi e che nel corso dei secoli si è arricchita di nuovi particolari, aneddoti che godono di grande fortuna lunga un millennio e forse più. Nell’827 gli arabi conquistarono la Sicilia e vi rimasero per quasi tre secoli. Retaggio del loro passaggio si ritrova in molte delle parole dialettali siciliane, nello splendore dei mosaici e nella meravigliosa costruzione dei paradeisos, i giardini di agrumi, solo per citare alcune delle tracce lasciateci. Grande importanza ha poi rivestito il patrimonio culturale fatto di racconti e novelle, tra cui appunto le storie di Giufà che, portato nell’isola dagli Arabi, divenne nei secoli il Giufà siciliano, diffuso in tutta la Sicilia e oltre e che ritroviamo sia pur con qualche variante in Bertoldo, il villano più famoso della letteratura italiana o in Arlecchino, la maschera di Carnevale che con la sua furbizia riesce a tirarsi fuori dagli impicci, in pratica quasi un archetipo che può cambiare nome a seconda delle regioni, diventando Vardiello a Napoli, Meneghino in Lombardia, o Giucca in Toscana.

Ma chi è Giufà? Nasce nel mondo arabo, come detto prima, dove si raccontava a partire al IX secolo di un certo Giuha (o Jochà), eroe e antieroe insieme, vittima di tranelli, beffeggiato, considerato un ragazzino bonaccione e senza malizia.

Racconti simili si ritrovano nel bacino del Mediterraneo: un personaggio simile prende il nome di Djehà in Marocco, di Nasreddin Khoja in Turchia, dove pare si tratti di un personaggio realmente esistito, uomo dotato di grande saggezza, un quadi, cioè un magistrato, quindi un uomo adulto, al contrario del Giufà siciliano, che rimarrà per sempre nei racconti un ragazzo cresciuto fisicamente, ma molto molto ingenuo, preda facile di imbroglioni e truffatori. I primi racconti scritti che lo vedono protagonista, dopo essere stati tramandati per via orale per secoli, risalgono alla metà dell’ottocento per opera di Venerando Gangi, scrittore e poeta acese. Sempre nello stesso periodo, Laura Gonzebach, etnologa di origine svizzero-tedesca, nata e vissuta a Messina, si interessò delle vicende narrate che ebbero poi la definitiva sistemazione strutturale per opera del medico palermitano Giuseppe Pitrè. La Gozenbach svolse un eccellente lavoro di ricerca ascoltando i racconti in dialetto di donne che vivevano nella parte nord orientale dell’isola, poi in un secondo momento li tradusse in lingua tedesca e li pubblicò a Lipsia in un libro dal titolo “Racconti popolari siciliani”. Giuseppe Pitrè raccolse altre storie provenienti dai posti più remoti nel suo libro “Fiabe, novelle e racconti siciliani”.

Ma Giufà, o meglio quel che rappresenta, ha influenzato una larghissima parte della letteratura italiana: scrittori del peso di Italo Calvino o Sciascia che scrive di Giufà e dei racconti delle sue avventure nei cortili e nelle strade di paese “per non andare a letto con il sangue guasto”, quasi un controaltare alla vita difficile di tutti i giorni, un aspetto diverso del mondo per dirla con Bachtin e i suoi studi sulle scienze umane. Ma Giufà era presente anche in scrittori vissuti più indietro nel tempo, come Boccaccio e Giambattista Basile nel suo “Lu cunti de li cunti”. Riferimenti a Giufà troviamo in Verga che ne “I Malavoglia” ne utilizza la maschera per indicare uno sciocco che “rubava l’olio, …chiudeva un occhio, … si lasciava menare per il naso”.

Le vicende di Giufà sono presenti nelle varie culture ma acquistano valenze tipiche della regione in cui sono narrate, anche se mantengono caratteristiche universali. Egli può essere buono o cattivo, intelligente o stupido, giovane, o come abbiamo visto vecchio, a volte ricco a volte povero, arguto o credulone, con un fondo di saggezza come in certi racconti delle azioni di Giufà, che pur considerato un buono a nulla, “un fissa”, per dirla in dialetto siciliano, riesce a tirarsi fuori dai guai con una logica ferrea che spiazza anche chi lo avrebbe voluto bellamente prendere in giro, come quando vendica il torto subito da un amico ad opera di un padrone che si riteneva troppo intelligente e scaltro.

In realtà, Giufà è un personaggio senza tempo, un contenitore all’interno del quale, per citare Calvino, “al centro del costume di raccontar fiabe è la persona – eccezionale in ogni villaggio o borgo – della novellatrice o del novellatore, con un suo stile, un suo fascino. Ed è attraverso questa persona che si mutua il sempre rinnovato legame della fiaba atemporale col mondo dei suoi ascoltatori, con la Storia”.

Due notazioni prima di chiudere.

La storiella forse più nota di Giufà, raccontata da tutte le tate e le nonne per generazioni, è quella in cui la madre, prima di uscire, gli chiede di raggiungerlo terminando la frase con l’iconico “tìrati la porta”, comando che il ragazzo esegue alla lettera, scardinando la porta e portandosela dietro facendo ridere l’intero villaggio. La locuzione “Nni fici quanto a Giufà” è un modo di dire diffuso in tutta l’isola per indicare una persona che commette azioni insensate e stolte, causate dall’imprudenza nell’agire e da un certo quasi talento speciale per infilarsi sempre in situazioni infelici.

In ultimo, le vicende di Giufà sono state narrate anche sul grande schermo del cinema, con un film intitolato “Goha”, del 1959 per la regia di Jacquea Baratier, con Omar Sharif e Claudia Cardinale come protagonisti.

Adriana Antoci