Nell’attuale panorama cinematografico statunitense spicca la figura di Jordan Peele, giovane talento più astuto che saggio. Afroamericano di ultima generazione, colma quella lacuna del “black cinema” che rimane tra il mainstream di Denzel Washington e l’autoriale intimità di Barry Jenkins (Moonlight, per chi non l’avesse visto, è un autentico gioiello).
Come vuole l’attuale diktat della celluloide made in USA, Peele è abile sia dietro la macchina da presa che come sceneggiatore, incarnando la figura di “showrunner”, una sorta di creatore a tutto tondo che realizza un proprio prodotto portandone avanti ogni aspetto. Relegato erroneamente al genere horror, il regista di Manhatthan nasce come comico ed ogni sua pellicola è intrisa di tale caratteristica; incubo e humour si fondono, ed è forse questo il motivo per cui viene definito dalla critica, appunto, un regista di cinema d’orrore. Ma la vera questione che affronta con grottesca ironia e spudorato thrilling è quella sociale. Jordan Peele fa cinema di denuncia, attivismo afroamericano feroce che si scaglia con acume e finezza contro l’ipocrisia di un’America solo in apparenza progressista. Se la prima prova, Get Out, è un film facilmente assimilabile a tali idiosincrasie culturali, è il secondo lavoro che sprofonda nell’inconscio perverso a stelle e strisce, intriso d’odio e moralmente corrotto anche nella più insospettabile delle situazioni.
Il titolo è US , NOI e rappresenta il gioco di specchi che corrode l’anima di tutti gli uomini, che non sono stati creati uguali, e ne esalta il senso di oppressione più che di denuncia. In US si respira il sempre attuale tema del doppio e lo si fa con un approfondimento intimo e psicologico maggiore rispetto all’irresistibile ritmo da black comedy del film precedente. US narra le vicende di una famiglia afroamericana borghese che si trova a dover fronteggiare i propri doppelganger; essi sono malvagi, ma se fossero solo malvagi sarebbe facile. Per l’intero film si disegna la parabola impietosa di quanto noi stessi facciamo schifo e quanto questo ci corrompa dall’interno come un cancro dall’ineluttabile fine.
Ma dov’è l’astuzia? Peele maschera una certa inesperienza con la furberia attualmente più in voga: butta dentro una sana dose di anni ottanta. I “cloni” della famiglia protagonista del film, sotto ad una tuta inquietante di colore rosso, portano una t-shirt sulla quale è stampato il logo di un evento tipicamente Eighties: Hands Across America; qui davvero Peele si supera in mestiere, regalando ad una platea di over trenta un tuffo nei ricordi e ai più giovani un’irresistibile curiosità che oscilla pericolosamente tra il fashion ed il trash.
Queste maldestre creature che fungono al contempo da antagonisti e da coscienza vivono con dedizione religiosa la memoria di Hand Across America e ciò risulterà un fatto determinante per l’intera opera; vale la pena dunque approfondire di cosa si trattasse.
Hands Across America, celebrato nel 1985, fu una campagna di sensibilizzazione contro lo stato di indigenza di molte famiglie americane che proponeva di formare una catena umana lunga tutto il Paese, dall’Atlantico al Pacifico, laddove ogni persona si sarebbe presa per mano. I ricavati (ogni “posto prenotato” nella catena umana si pagava con un’offerta libera che partiva da dieci Dollari) sarebbero stati devoluti in beneficenza.
Ed eccoci al nocciolo della questione. Il cosiddetto charity è il metodo più diffuso negli States per pulirsi la coscienza: il puritanesimo diviene elegante espressione di compiacimento e riempie di giubilo i ricchi bianchi in un tripudio di ipocrisia.
Al tempo, una nutrita schiera di artisti si votarono al charity e nacque, per volontà di personaggi quali Quincy Jones, Lionel Richie, Michael Jackson e altri, il progetto USA for Africa, di cui tutti conoscerete il frutto, il singolo We Are The World. Cantata dal gotha della musica mondiale, la canzone fu un clamoroso successo i cui proventi furono devoluti in beneficienza, destinazione Africa. E pace fatta con il proprio iniquo conto corrente. Correva l’anno 1984 e la stagione successiva, sull’onda dell’entusiasmo ma soprattutto su pungente insistenza di Ronald Reagan, la stessa cricca di milionari fu invitata a rivolgere la propria sensibilità entro i confini del proprio Paese. Il divario tra ricchi e poveri, nel boom del capitalismo, raggiunse proporzioni spaventose e fu dunque istintivo per gli WASP, cioè bianchi americani di origine anglosassone, mettere mano al portafogli e puntare tutto su di una plateale iniziativa che rendesse omaggio prima di tutto al loro ego. Nacque Hands Across America che, nonostante la riuscita della catena umana, risultò un fiasco: dei sessanta milioni promessi ne furono raccolti a malapena venti, la canzone omonima andò a perdersi nelle ultime posizioni delle hit parade e molti sollevarono dubbi sull’effettiva utilità di questi voli pindarici che fanno tanta scena ma che non hanno mai cambiato, non cambiano e mai cambieranno le condizioni di vita di chi parte svantaggiato in un gioco a perdere come quello del sistema occidentale.
Ad ogni modo, negli occhi di un Jordan Peele bambino lo spot televisivo di Hands Across America divenne qualcosa di endemico e fu assorbito dall’inconscio come un ossessivo messaggio subliminale.
E Peele ne rimase affascinato e turbato, scosso dal controsenso. Sono rimandi della propria infanzia di cui magari ci si dimentica per anni per poi vederli affiorare tutto ad un tratto; ed eccoli lì, dischiusi nella loro purezza, a definire che cosa fosse sbagliato e immondo e che tutt’oggi prosegue come uno schiacciasassi sopra la società intera. Ecco che cosa può significare, quali oscuri segreti può celare, un apparentemente innocuo spot pubblicitario di una catena della pace.
Michele Simonetti