I silenzi di Lazzaro

Ci andavo spesso, il sabato pomeriggio. Il suo studio, quello di Walter Lazzaro, era dalle parti di Brera, che allora era il centro del mondo artistico di Milano. Ero giovane, meno di vent’anni. Scrivevo e dipingevo.

Con un mezzo toscano in bocca, mi fermavo davanti alle vetrate di quello spazio pieno di silenzi, cabine solitarie sulla spiaggia e barche che sembravano abbandonate in una luce sparagnina. Qualche volta lo vedevo dentro, aggirarsi tra le sue opere per poi sedersi su di una sediola di legno. Non ebbi mai il coraggio di entrare e parlargli. Rimanevo lì, quasi ipnotizzato da quei colori e quelle atmosfere.

Non so quante volte sono passato davanti a quello studio-esposizione. D’estate, quando il sole picchiava forte e faceva caldo. D’inverno, quando Milano si vestiva di nebbia e un po’ di scighera… accendevo il Toscanello, allora fumavo solo quelli, e mi divertivo a guardare i Silenzi di Lazzaro attraverso le boccate di fumo. Poi, di solito, allungavo il giro e facevo una puntata al Giamaica o al Bar Brera, dove trovavo un ambiente pregno di arte e cultura. Ne avevo bisogno, ne sentivo la necessità.

Tornando a piedi, verso casa, ripensavo a quei colori, alle barche, all’ombrellone solitario… alla cabina che da sola riempiva un vuoto esistenziale racchiuso nel perimetro della tela. Poi, nel mio di studio, tre metri per tre ricavati in una casetta mezza fatiscente, ci provavo. Tentavo di mettere i miei di silenzi su tela. Non ci sono mai riuscito. Ma furono pomeriggi entusiasmanti. Non capivo come facesse a trasmigrare la sensazione del vuoto attraverso l’utilizzo di un solo soggetto. Allora, la settimana dopo tornavo davanti a quelle vetrine… e rimanevo lì, incantato a cercare di carpire il suo segreto… una sua pennellata, l’uso di un ocra smorto come la faccia di un morto.

Mi sono rimasti dentro i suoi Silenzi.

Mi sono rimasti nel cuore.

Fabio Pedrazzi