Il cavaliere sognatore

“Hippikon”, è questo il titolo del romanzo di Alessandro Romano, classe 1975, appena approdato alla Placebook Publishing & Writer Agency. La passione per la scrittura è nata con lui anche se lavora come videomaker per un’emittente locale in Salento, dove vive con la moglie e i figli. Per lui la scrittura è nata da un sogno, quello di Salgari che lo ha appassionato con il suo “Le tigri di Mompracem” che gli ha trasmesso quello che in gergo si dice “fuoco sacro”. Questa non è la sua prima pubblicazione, Romano ha al suo attivo diversi libri e riconoscimenti letterari. Lo abbiamo intervistato per i lettori di Kukaos.

Raccontaci qualcosa di te, chi è Alessandro Romano?

Sono un uomo taciturno e osservatore che la vita ha strappato con la forza alla sua condizione. E che grazie al cielo, una certa tendenza all’elasticità mentale, si è ricreato un mondo esteriore dopo aver vissuto prima interiormente. Vivo in Salento lavorando per un’emittente TV locale, Telerama, girando e montando video, sopratutto per una trasmissione documentaristica (“Terre del Salento”). Ma il fuoco sacro della narrazione ha incendiato ogni fibra del mio essere, così continuo questa opera di ricerca in ogni momento libero, gratuitamente, in un blog dal titolo salentoacolory.it perché cercare, documentare, filmare, leggere e poi scrivere è diventato tutta la mia vita. Cominciai con la lettura a sette anni, quando mi capitò fra le mani “Le tigri di Mompracem” di Emilio Salgari, e fu come un’eruzione: la lettura di quelle pagine ha fatto traboccare dentro me un entusiasmo ed una “fame” verso la vita col fuoco invincibile che ha solo un bambino. Che per un vero miracolo sento ancora dentro me. Ogni volta che mi accingo a raccontare una nuova storia.

Come hai scelto il titolo del tuo libro?

“HIPPIKON” è una parola greco antica, letteralmente significa “cavaliere”. Si tratta di un ideale, ciò che in fondo ha animato l’uomo sin da quando improvvisamente decise di abbandonare le caverne, la lotta corpo a corpo contro gli animali e le forze della natura, e dedicarsi alla comunità. La leggenda medievale di Re Artù e dei Cavalieri della Tavola Rotonda nacque in un’epoca in cui lo spirito umano ancora concepiva concetti quali aiutare il debole, difendere l’indifeso, come necessari alla creatura umana, anelando ancora, dopo secoli e secoli di Storia e di storie di guerra, un futuro a dimensione umana.

E perché proprio Don Chisciotte?

La letteratura è stata testimone dei sogni dell’uomo. Quando finì la leggenda di Artù, perché tale rimase sempre nella realtà, nacque Don Chisciotte, ossia un uomo che dopo aver passato la sua vita a leggere di gesta meravigliose di cavalieri purissimi, esce di senno e decide di fare lui stesso, quelle gesta. Ma il nuovo cavaliere del Seicento ha perduto l’ideale, e Don Chisciotte fa solo ridere ad un approccio leggero, a questa lettura. Si tratta invece di uno dei più grandi romanzi dell’ingegno umano. Scritto da un uomo che in vita ha combattuto contro la tirannia dei Turchi nel Mediterraneo, dai quali è stato poi fatto schiavo per cinque anni, che ha cercato per tutta la sua esistenza il suo posto nel mondo, il modo per poter scrivere, dedicarsi a ciò che amava davvero, ma ricevendo sempre e solo sconfitte, il Don Chisciotte è il canto supremo verso l’utopia più grande. Una lotta contro la vita, che non ci accetta per come siamo, ci respinge, e non altrimenti possiamo leggere il finale del grande romanzo di Miguel de Cervantes, in cui don Chisciotte rinsavisce e si rivolge all’amico che aveva costretto a seguirlo: “Perdonami amico mio per averti dato l’occasione di sembrare pazzo come me, inducendoti a credere che ci furono davvero dei cavalieri erranti. Ah, esclamò Sancio fra le lacrime, non muoia vossignoria! Accetti il mio consiglio e viva molti anni, perché la più grande pazzia che possa fare un uomo in questa vita è di lasciarsi morire senza opporre resistenza, senza che nessuno lo uccida, ne lo spingano altre mani che non siano quelle della malinconia!”. Il Cervantes chiuse a 60 anni la sua travagliata e triste esistenza: l’esistenza di un uomo buono, senza riposo e senza gloria, un animo superiore e generoso che l’ingratitudine, l’ingiustizia e l’incomprensione degli uomini amareggiò senza comunque riuscire ad inasprire. Lo vedo come un faro nella notte, una luce nel buio di certi periodi della Storia umana.

Secondo te c’è un parallelismo tra il nostro oggi e quel periodo?

Certamente! I moti umani sono sempre gli stessi, l’imperialismo, il colonialismo, il maschilismo, la prevaricazione, lo sfruttamento, hanno sempre fatto parte della nostra società, anche se spesso sono stati chiamati con altri nomi. Il XVI secolo poi, per eccellenza, quando gli storici individuano la nascita del mondo “moderno”, è infinitamente vicino a noi. In quel periodo gli europei scoprivano l’America, avevano la grande opportunità di creare un nuovo mondo, una nuova società, mescolandosi con culture assolutamente nuove, un’esperienza dagli orizzonti così grandi che noi oggi non possiamo più vivere. Ma anche noi, oggi, con i mezzi che il progresso ci ha fornito, avremmo tutte le carte in regola per innescare un processo ricreativo della comunità, magari partendo dal piccolo, con l’intento di giungere più lontano. Ma la spinta evolutiva dell’uomo, come “animale sociale” trovo sia per il momento ormai sopita, annegata da moti quali l’indifferenza e l’egoismo.

E’ importante la Storia?

La Storia umana è TUTTO. Ma incappiamo sempre nell’errore di considerare “storia” solo i grandi eventi che studiamo a scuola, come se imparare come sia scoppiata la Seconda Guerra Mondiale fosse soltanto apprendere la concatenazione degli eventi che hanno portato al conflitto. Ma studiare questo percorso non ci renderà “maturi”, se non abbiamo compreso la società di quel tempo, le ideologie che la dominavano, la condizione sociale che ha permesso la presa del potere alle classi politiche che hanno condotto il mondo a quella situazione. Per me è STORIA tutto ciò che riguarda l’evoluzione umana, è un ricordare ciò che hanno fatto gli antenati. Nella mia città, a Lecce, qualche anno fa uno scavo archeologico in pieno centro storico ha rivelato che in un convento si scavavano dei pozzi, in alcuni vi essiccavano i morti, dagli altri attingevano l’acqua dalla falda: ma il pozzo dove scolavano i morti era molto più profondo di quello dove si prendeva l’acqua, che così era protetta dall’inquinamento. L’acqua stessa che cadeva dal cielo con le piogge era incanalata dai tetti verso cisterne in cui era stoccata per tutte le necessità. Questa mentalità è oggi lontanissima dal nostro modo di pensare, tendiamo “naturalmente” ad aprire il rubinetto senza criterio e risparmio, sprecandone poi molte risorse. In un’era come quella che viviamo, che ci porta inevitabilmente a grandi ed epocali cambiamenti per via del clima, la siccità e la scarsità d’acqua, ripensare alla nostra Storia “minima”, a questi aspetti che di solito non si trovano facilmente sui libri, non può che contribuire ad aprirci la mente ed indirizzarci a pratiche più “umane”. Stiamo perdendo l’essenziale, circondati da ogni dove da troppi impulsi e stimoli risibili, che ci fanno pensare solo al presente, a vivere in un eterno OGGI, senza più uno sguardo consapevole verso il nostro passato, e quindi poi verso il futuro.

E cos’è l’utopia per te?

Quando si tira fuori il meglio di noi stessi, da dentro, da ciò che teniamo nascosto, quando decidiamo e diamo tutto noi stessi per realizzare un’idea, un progetto, un desiderio. Che non importa debba poi essere qualcosa di durevole nel tempo, perché niente è eterno e immutabile, è una legge dell’universo intero, questa massa incommensurabile di materia che si muove incessantemente nello spazio a velocità per noi inconcepibile. Utopia è realizzare qualcosa per la quale vai a letto con quel pensiero la sera, e ti risvegli al mattino sempre con lei, lei che ti nutre l’anima tua intera, ti riempie di energia, per uno slancio gratuito di crescita

Qual’è il significato dell’esistenza umana a tuo giudizio?

Siamo animali sociali, però fra tutte le creature ci eleviamo sopra ognuna per merito dell’intelletto e della parola. Ciò ci fa comprendere che il significato da dare alla nostra esistenza è di “fare comunità”. Ancora di più oggi, che le distanze fra un luogo e l’altro, una persona e l’altra da ogni parte del globo si sono incredibilmente ridotte. Le nostre conoscenze enormemente accresciute dell’ultimo secolo ci spingono a meditare sulla salvaguardia di questo pianeta e sulla convivenza pacifica fra ogni popolo e ogni cultura. Fare una famiglia, globale, una “cuccia umana”, deve essere lo spirito guida di ognuno di noi, al di la di qualsiasi religione o credo politico.

Questa non è la tua prima esperienza editoriale, ci racconti come sei arrivato alla Placebook?

E’ stato nell’estate del 2020 che mi imbattei nella Placebook, cercavo un editore che mi aiutasse realmente nel curare il romanzo, e restai colpito dal loro prodigarsi gratuitamente, e per me fu bellissimo scoprire una simile realtà, e veder pubblicato “Il Folle”, una storia che avevo cullato per vent’anni prima che qualcuno potesse leggerla.

Che messaggio vorresti arrivasse ai lettori?

Non c’è una sola parola che ho messo “a caso” fra queste righe, di messaggi ne ho nascosti ovunque, come quando semino le mie rape nell’orto. Ma come per ogni libro ogni lettore trarrà il messaggio che più gli occorre, come accade anche a me, perché leggere è ancora una delle cose più intime che oggi possiamo fare.

E perché dovrebbero comprare il tuo libro?

Leggere per me è l’emozione che provai la prima volta, col buon Salgari. Non c’è racconto in cui mi cimenti per cui io non provi a ricreare quella magia. Lo faccio come per un debito di riconoscenza verso quell’uomo, potrà sembrare un’enormità, un’esagerazione, ma per me è veramente così. Leggere è un viaggio sacro, in cui chi scrive deve dare tutto sé stesso, e chi legge vuole ricevere qualcosa, perché chi legge poi porta in giro. E, come disse qualcuno, il sapere si accresce solo se condiviso.

Progetti futuri?

Ce n’è uno che scalpita di veder la luce. Mi fa venire in mente mia moglie, che la notte, mentre Leo si è addormentato e io sto cullando la piccola Anna Luce, all’improvviso gliela mollo dicendo quasi fra me “scusa un attimo, sto sentendo le voci” e sparisco nel mio studiolo. Lei si preoccupa e mi fa ridere che viene a spiarmi, perché dopo tanti anni di vita assieme ancora non si è abituata a questa cosa che sento parlare i personaggi! Per me è proprio così, ed in questi periodi mi ritrovo a prendere appunti e fare fogli volanti ovunque mi trovi, mentre sto lavorando, o sono fermo al semaforo, nei momenti più improbabili, per non perdermi la battuta che gli appena sentito dire, o la sfuriata, o il dialogo serrato, urlato o sussurrato. Accumulo, ho sempre scritto così. Passo anni a mettere parole in saccoccia, fino a che il vaso trabocca e non mi è più possibile rimandare. Ora è tornato quel momento in cui, per qualche mese, avrò la sveglia alle 4,30 del mattino, per scrivere fino alle 7, prima di iniziare ogni giornata. Alcuni personaggi de “Il Folle” premono per raccontare un’altra storia, di cui non posso dir nulla, come per ogni figlio che si desidera e si mette in cantiere.

E sogni nel cassetto?

Vedere in giro sogni che si realizzano. Non solo miei. Vorrei vedere persone contente del loro lavoro, che ti guardano negli occhi col sole che avevamo tutti noi nell’infanzia. Viviamo forse l’epoca più cupa della Storia, senza slanci, senza grandi obiettivi, lo vedi dal capo di un governo sino all’ultimo raccoglitore di pomodori della Capitanata. Non è più “vivere”, questo è solo un tirare avanti. Verso dove, nessuno lo sa. Vorrei vedere torme di cavalieri galoppare in giro, come il mio Hippikon, e non importa che poi esso finisca come è finito, non è importante riuscire: questa vita vuole soltanto che noi ci proviamo, vuole vederci al galoppo lancia in resta senza paura verso la strada e verso nessuno.

Bianca Folino