La vita di John Keats è compresa nel breve spazio di poco più di 25 anni. Nato il 29 ottobre 1795 in un sobborgo di Londra, morì a Roma, nella sua casa di Piazza di Spagna, il 23 febbraio 1821.
E’ una vita così povera di avvenimenti, che appare difficile immaginarla nel tumultuoso periodo romantico, che aveva visto le clamorose vicende di Byron e di Shelley, di cui ho parlato nelle due precedenti puntate sul Romanticismo inglese.
La sua fu una vita esemplare, forse unica di poeta; fin dalla adolescenza ricercò la bellezza ed ebbe un solo ideale, la poesia.
Quando il poeta ha 9 anni, perde il padre per un trauma cranico conseguente a una caduta da cavallo.
La madre, neanche due mesi dopo, si risposa. John con i fratelli va a stare con i nonni. L’anno successivo, siamo al 1804, muore il nonno, lasciando un testamento di difficile interpretazione che renderà problematico ai fratelli, divenuti adulti, entrare in possesso dell’eredità. Nel 1810 muore anche la madre, che era tornata a vivere in famiglia e i quattro figli vengono affidati dalla nonna a un tutore assai severo con loro.

Nel 1815 studia come apprendista chirurgo e farmacista presso uno dei più noti ospedali di Londra e nel 1816 si abilita in una professione che non eserciterà mai.
Non era certo nato per esercitare la medicina e, quindi, ben presto fa il suo ingresso nel mondo letterario londinese, immergendosi totalmente nel sogno poetico, unica vera ragione della sua vita.
Di Keats propongo una lirica intitolata Solitudine, una solitudine che arriva a descrivere, a immaginare, quasi la volesse forgiare secondo la sua volontà…
Solitudine, se vivere devo con te,
Sia almeno lontano dal mucchio confuso
Delle case buie; con me vieni in alto,
Dove la natura si svela, e la valle,
Il fiorito pendio, la piena cristallina
Del fiume appaiono in miniatura;
Veglia con me, dove i rami fanno dimora,
E il cervo veloce, balzando, fuga
Dal calice del fiore l’ape selvaggia.
Qui sarei felice anche con te. Ma la dolce
Conversazione d’una mente innocente, quando le parole
Sono immagini di pensieri squisiti, è il piacere
Dell’animo mio. È quasi come un dio l’uomo Quando con uno spirito affine abita in te.
E qui, nell’ultima parte della poesia, il poeta recupera i versi di Saffo, poi ripresi da Catullo, quando la poetessa – distrutta dall’amore per una delle sue allieve – cantava
A me sembra uguale agli dei
chi a te vicino così dolce suono
ascolta, mentre tu parli e ridi amorosamente.
Con una differenza enorme: in Saffo c’era la gelosia, lo struggimento per qualcosa di fisico, di profondamente umano, qualcosa di vissuto…, che le farà dire: “e tutta in sudore e tremante, come erba patita scoloro”.
Per Keats, invece, è semplicemente un fatto mentale, un prodotto del pensiero, il possedere un insieme di immagini, di ricordi…. che rendono “quasi” simile a un dio l’uomo che riesce a convivere con la solitudine, addirittura ad abitarla.
E proprio quel quasi attenua, riducendola drasticamente, la portata di un’affermazione diversamente molto forte.

La sua non è tuttavia una vita solitaria, il suo primo sodalizio è con i fratelli George e Thomas. E’patetico questo gruppo di ragazzi orfani, uniti da vincoli tenerissimi.
Con loro c’è la sorellina Fanny, assai più giovane, alla quale il poeta scriverà delle bellissime lettere, ricche di un affetto profondo, dalle quali emergono la sua dirittura morale e la delicatezza di intuito, doti veramente eccezionali in un uomo così giovane.
Nel 1818 con un amico, dopo aver salutato il fratello George che parte per l’America per cercare fortuna, compie un lunghissimo giro a piedi attraverso la regione dei laghi e in tutta la Scozia. I disagi del viaggio, l’eccessiva fatica e il pessimo cibo, concorrono a indebolirlo, al punto che quando torna a casa gli amici fanno fatica a riconoscerlo tanto si era smagrito.
A casa, tra l’altro, trova l’altro fratello, Thomas, forse il più caro, gravemente ammalato. Si pone al suo capezzale e non lo abbandonerà mai sino a quando, dopo lunghi e terribili mesi di malattia, il fratello gli muore di tisi tra le braccia.
E certo anche questo influì sulle sue condizioni fisiche, già scosse, e lo predispose al male che lo avrebbe portato in breve tempo alla tomba.
La formazione intellettuale di Keats non è molto complessa. Fu soprattutto un autodidatta, che lesse moltissimo sin dall’infanzia: i suoi modelli furono i poeti dell’epoca Elisabettiana, ma lesse anche John Milton e Shakespeare.
Molti scrittori e artisti sono stati profondamente influenzati dalla sua poetica, primo fra tutti Jorge Luis Borges, per il quale il primo approccio a Keats rappresentò la più importante esperienza letteraria.
In quegli anni non facili della sua vita, ebbe una fugace, ma intensa relazione con Isabelle Jones, di cui poco si sa, ma della quale si avvertono chiare tracce nella sua poesia di quel periodo.
Propongo una lirica in due versioni diverse: la prima più breve e più immediata.
Dici di amarmi
Dici di amarmi, ma con un sorriso freddo
come un’alba di settembre. Mi sorridi, lo vedo,
ma il tuo sorriso non mi scalda.
Dici di volermi bene, ma il tuo bene non mi abbraccia.
Invece questo vorrei da te, un amore
da poter infilare come un morbido,
carezzevole, soffice maglione di lana.
Ne sei capace!?… Oh, amami davvero!

La seconda lirica è più lunga: nelle prime quattro strofe, sono cinque in tutto, il poeta indugia sugli esempi metaforici: la voce e il sorriso freddo di una suora, i coralli del mare, la mano morta, inerme come quella di una statua. La datazione di questo testo è molto incerta. Se, come sostengono alcuni commentatori, dovesse essere di inizio estate 1817, allora sarebbe sicuramente dedicato a Isabelle Jones.
Che mi ami tu lo dici, ma con una voce…
Che mi ami tu lo dici, ma con una voce
più casta di quella d’una suora
che per sé sola canta i dolci vespri,
quando la campana risuona –
Su, amami davvero!
Che mi ami tu lo dici, ma con un sorriso
freddo come un’alba di penitenza,
Suora crudele di San Cupido
devota ai giorni d’astinenza –
Su, amami davvero!
Cercando tra i santi, non si trova San Cupido. Il poeta gioca evidentemente sul contrasto tra Cupido, desiderio, brama e astinenza. I giorni di astinenza, si riferiscono ai quattro lunghi periodi dell’anno dedicati al silenzio e al digiuno praticati dai monaci. (Quatuor tempora dei latini).
Che mi ami tu lo dici, ma le tue labbra
tinte di corallo insegnano meno gioia
dei coralli del mare –
Mai che s’imbroncino di baci –
Su, amami davvero!
I coralli, pur nella loro bellezza, sino a quando stanno sul fondo del mare non possono trasmettere alcuna gioia …. Con il mai che s’imbroncino di baci, torna invece a parlare delle labbra, giocando ancora sul contrasto tra il verbo imbronciare, l’essere di cattivo umore, e i baci che invece sono occasione di piacere, di gioia, quella gioia che non danno i coralli se non vengono portati in superficie.
Che mi ami tu lo dici, ma la tua mano
non stringe chi teneramente la stringe.
È morta, come quella d’una statua,
mentre la mia brucia di passione –
Su, amami davvero!
Su, incendiamoci di parole
e bruciandomi sorridimi – stringimi
come devono gli amanti – su, baciami.
E l’urna, poi, delle mie ceneri seppelliscila
nel tuo cuore. Su, amami davvero!
Alla voce casta, al sorriso freddo, ai coralli che non sono in grado di dare gioia, alla mano che non stringe, che non dà calore, quasi fosse la mano inerme di una statua, seguono gli ultimi versi, nei quali c’è come un crescendo… una crescita di passione sottolineata dai verbi: il presente brucia, il gerundio bruciandomi, l’esortativo incendiamoci di parole e gli imperativi stringimi alla maniera degli amanti, baciami, amami, sorridimi. Con la passione cresce anche il ritmo del verso, che ha come un’accelerazione, per poi subire una brusca frenata e ripiombare nel pensiero della morte… l’urna delle mie ceneri, altro imperativo, seppelliscila nel tuo cuore.

Domanda: Si può chiedere l’amore? Si può inventare o dissimulare l’amore?
In questi versi Keats pare implorare calore da una devota quanto frigida donna innamorata, ma la sua supplica, Su amami davvero, ripetuta cinque volte alla fine di ogni strofa, credo sia destinata a rimanere inascoltata.
I sentimenti si possono, più o meno opportunamente manifestare, ma mai accendere o spegnere in funzione della volontà di un altro.
Non molto tempo dopo, incontrò Fanny Brawne e fu un improvviso risveglio di tutte le sue compresse facoltà, un caldo amore sensuale inappagato, acutizzato dalla sua stessa malattia. Le lettere a lei rivolte sono uno sconcertante documento di passione, vere urla più che espressioni d’amore. Quanto più il male progrediva ed egli vedeva svanire la possibilità di realizzare il suo sogno d’amore, tanto più profonda si faceva la sua passione, in un tormento di desiderio e adesso anche di gelosia, che lo sconvolse sempre più. In quel breve volger di anni, Keats scrisse alcuni dei versi più belli che mai siano stati pronunciati.
Senza di te
Non posso esistere senza di te.
Mi dimentico di tutto tranne che di rivederti:
la mia vita sembra che si arresti lì,
non vedo più avanti.
Mi hai assorbito.
In questo momento ho la sensazione
come di dissolvermi:
sarei estremamente triste
senza la speranza di rivederti presto.
Avrei paura a staccarmi da te.
Mi hai rapito l’anima con un potere
cui non posso resistere;
eppure potei resistere finché non ti vidi;
e anche dopo averti veduta
mi sforzai spesso di ragionare
contro le ragioni del mio amore.
Ora non ne sono più capace.
Sarebbe una pena troppo grande.
Il mio amore è egoista.
Non posso respirare senza di te.
Un genere di amore esclusivo, totale, che prende l’anima… Amare così, con questa intensità è per il poeta qualcosa di devastante. Lo assorbe completamente, tutto il resto non conta più, perde di significato! Mi dimentico di tutto tranne che di rivederti, cioè di tornare a cercarti… Non vedo più avanti …, avrei paura a staccarmi da te.
Il mio amore è egoista, lo riconosce, ma poi ecco la frase che più colpisce: Non posso respirare senza di te, come se niente altro al mondo fosse indispensabile per vivere.
Il 13 ottobre 1819, probabilmente inviandole questi versi o mentre li stava componendo, le scrive una lettera nella quale sembra di rileggere questa poesia:
Mia dolce Fanny,
Ti devo dunque scrivere per vedere se questo mi assista nell’allontanarti dalla mia mente, anche per un breve momento. Nella mia anima non riesco a pensare a nient’altro. È passato il tempo in cui avevo il potere di ammonirti contro la poco promettente mattina della mia vita. (…Il poeta è malato e sa che deve morire) Il mio amore mi ha reso egoista. Non posso esistere senza di te. Mi scordo di tutto salvo che di vederti ancora, la mia vita sembra fermarsi lì, non vedo oltre. Mi hai assorbito. In questo preciso momento ho la sensazione di essermi dissolto! Sarei profondamente infelice senza la speranza di vederti presto. Sarei spaventato di dovermi allontanare da te. Amore mio cambierà mai il tuo cuore? Non ho limiti ora al mio amore… (…) Non posso essere felice lontano da te. Non mi trattare male neanche per scherzo. Mi ero meravigliato che gli uomini potessero morire martiri per la loro Religione (…) Ora non rabbrividisco più. Potrei essere un martire per la mia religione – la mia religione è l’amore – potrei morire per questo. Potrei morire per te. Il mio credo è l’amore e tu sei il mio unico dogma. Mi hai incantato con un potere al quale non posso resistere; eppure potevo resistere fino a quando ti vidi; e perfino dopo averti visto ho tentato spesso “di ragionare contro le ragioni del mio amore”. Non posso farlo più – il dolore sarebbe troppo grande. Non posso respirare senza di te.
Tuo per sempre
John Keats

Ognuno dei termini contenuto nella lettera potrebbe servire per aprire una discussione, sollevare un dibattito talmente tanti sono i filoni e le tematiche che il testo mette in evidenza. Siamo nel periodo “romantico”, è vero, ma leggendo questa lettera ci domandiamo se oggi sia ancora possibile amare così, con questa intensità, al punto da avere l’impressione di dissolversi, perché lei lo ha totalmente assorbito.
La fine del poeta fu assai rapida. Dopo un primo sbocco di sangue nel febbraio 1820, pochi giorni di sollievo e di speranza. Poi un viaggio in Italia, consigliato dai medici e finanziato dai poeti Byron e Shelley, in compagnia dell’amico pittore Severn, un viaggio disastroso sia per le condizioni morali che per quelle materiali. Giunge in pessimo stato a Roma e, dopo un’agonia di alcuni mesi, mesi di vita postuma come egli la chiamava, si spegne il 23 febbraio 1821.
Viene sepolto nel cimitero acattolico di Roma presso la piramide di Caio Cestio, all’ombra di grandi pini che, sussurrando, sembrano ripetere all’infinito i suoi versi.
Lì sono conservate anche le ceneri di Shelley e di Gramsci.
In realtà, nella poesia di Keats, non solo in quelle proposte, è sempre presente la preghiera di un uomo che sa che tra poco dovrà morire. I due si erano amati per quello che erano. Quella speranza d’amore è servita a tenerlo in vita e ancora negli ultimi giorni, gli farà scrivere:
Mia cara ragazza, ti amo ancora e ancora e senza
riserve… In ogni modo possibile, anche le mie gelosie
non erano che agonie dell’Amore, nelle fitte più intense
che mai ho provato, io sarei morto per te.
E poi questi versi molto dolci di fine 1820, dedicati a Fanny
Tu sempre nuova.
L’ultimo dei tuoi baci era il più dolce,
l’ultimo sorriso il più luminoso,
l’ultimo movimento il più aggraziato.
Dove, a prevalere sulla dolcezza del verso ispirato da un tenero affetto, a prevalere sulla bellezza che ancora una volta riesce a vedere nell’amore, è la consapevolezza espressa da quell’aggettivo, ultimo, che per lui ha una pregnanza, un significato tutto speciale. Proprio perché, mentre scrive, ha la consapevolezza di vivere l’ultimo pezzo di vita, avverte il terrore e il dolore della malattia che si porta appresso, nella luce dorata dei colli romani. Lei, Fanny, porterà il lutto per diversi anni, prima di consentire ad un altro uomo di sposarla, uomo per altro ignaro della sua storia d’amore con il poeta.
Franco Rizzi