Il Romanticismo inglese

Dedico le uscite del mese di marzo alla (ri)scoperta del Romanticismo inglese, con la lettura dei testi dei tre poeti maggiori: Lord Byron, Shelley e Keats.

Gli autori romantici inglesi vengono generalmente divisi in due diverse generazioni: la prima concerne gli autori di fine 1700, la seconda raggruppa coloro che sono vissuti nella prima metà del 1800.

Il romanticismo inglese si manifesta ufficialmente nel 1798, con la pubblicazione delle ballate liriche composte da alcuni giovani poeti che operavano nel sud ovest dell’Inghilterra.

Si possono definire invece della seconda generazione Byron, il poeta esule e dall’animo ribelle, Shelley, che aveva molto caro il tema della libertà (basti pensare alla sua opera: Prometeo liberato) e Keats, un nostalgico dell’era classica.                                                                                     

Il Romanticismo fu un fenomeno europeo che, pur nascendo come reazione alla ben nota “Età dei Lumi”, fu profondamente affascinato dalle idee di libertà, di uguaglianza e fratellanza promosse dalla Rivoluzione Francese.                             

Sotto l’influsso delle idee rivoluzionarie, i Romantici Inglesi sognarono di poter costruire un mondo migliore. Ben presto però le mire imperialistiche di Napoleone, generarono in loro profonda delusione e sconforto, acuiti in seguito dalle conseguenze della Rivoluzione Industriale che evidenziò ancor maggiormente il divario esistente tra classi ricche e povere.

Non potendo cambiare la società del loro tempo, si ribellarono contro di lei, diventarono mistici, visionari, profeti. Poeti che, sentendo fortemente i limiti della Dea Ragione, riscoprirono il potere creativo (Shelley in particolare) e considerarono la poesia come espressione dell’immaginazione.

I tre grandi poeti della seconda generazione, Byron, Shelley e Keats, erano diversissimi fra loro, ma avevano alcune particolarità che li accomunavano: morirono giovanissimi, tre vite brevi, ma intense e significative.                                                                              Seconda particolarità: morirono lontano dalla loro patria.                                                            Terza, furono anticonformisti ed amanti della libertà.

Per questo motivo, quarta comunanza,  respinti dalla rigida società inglese dell’epoca, si rifugiarono in Italia,  dove scrissero le loro migliori opere in un clima più sereno, circondati da amici aperti e comprensivi, traendo felici ispirazioni dalla bellezza dei luoghi in cui abitarono.

Shelley e KEATS morirono addirittura in Italia, l’uno in un naufragio a 29 anni, l’altro ucciso dalla tubercolosi a soli 25. BYRON, invece, morì a 36 anni di febbri reumatiche in Grecia, dove era andato per cercare “un’onorevole morte sul campo di battaglia” combattendo contro i Turchi.

Lord Byron

Parlo per primo di Byron, il più famoso della triade, il più imitato in tutta Europa, quello più “alla moda”, anche se forse non il più grande come poeta. Contribuirono al suo successo il fascino dell’esotismo, il suo essere un eroe fatale, sprezzante verso tute le convenzioni sociali,  poeta “maledetto”  e solitario. Byron nasce a Londra il 22 gennaio 1788. A causa della vita dissoluta del padre, il capitano John Byron, detto Jack il matto, trascorre l’infanzia con la madre ad Aberdeen in Scozia e a 12 anni inizia a scrivere versi. A 20 si trasferisce nel castello di famiglia di Nottingham e l’anno seguente, il 1809, occupa il seggio che gli spetta di diritto alla camera dei Lord. Proprio nel 1809, inizia per lui la stagione dei grandi viaggi, che lo vedono a Lisbona, Siviglia, Cadice, Gibilterra, Malta e poi in Albania. Nel 1811 rientra in Inghilterra, ma non riesce ad assistere la madre, morta qualche giorno prima che il figlio potesse raggiungerla. Nel 1812, inaspettato, arriva il successo e, con il successo, il trionfo mondano che vede la sua relazione con la donna più ammirata del momento, Lady Caroline Lamb.

Nel 1815 sposa una ricca ereditiera, Anna Isabella, dedita agli studi di matematica, che gli dà una figlia, Augusta Ada, ma già nel 1816 moglie figlia lo abbandonano e lasciano la casa a causa di fondatissimi sospetti di una relazione incestuosa con la sorellastra Augusta Leigh, figlia di un precedente matrimonio del padre. Qualcuno disse che la vicenda fu portata sotto la luce dei riflettori per tacitare un altrettanto fondata accusa di rapporti omosessuali. Lo scandalo è grande: il poeta il 24 aprile 1816 lascia per sempre l’Inghilterra e inizia a viaggiare per l’Europa. Prima il Belgio, dove visita il campo di Waterloo, poi è a Ginevra e in Italia. Nel 1817 è a Venezia, poi vivrà a Bologna, Ravenna e Ferrara, dove si farà rinchiudere nella cella che era stata del Tasso. Tra il 1820 e il 1821 conosce e fa esperienza della Carboneria, nel 1822 trascorre un felice periodo a Porto Venere dove lui, grande nuotatore, pratica con successo questo sport. Nel 1823 si imbarca per Cefalonia, desideroso di combattere a fianco dei ribelli greci contro l’impero ottomano, ma nel 1824 per una febbre reumatica, trasformatisi in meningite, muore delirando a Missolungi. A Lord Byron è dedicata una grotta a Porto Venere, in uno dei punti più belli in cui si erge la scogliera e a lui è intitolata anche la terrazza più bassa della panoramica Cascata delle Marmore, chiamata “Piazzale Byron”.  

D’obbligo citare il suo capolavoro, Don Giovanni, nel quale il tono scettico e satirico è temperato da accenti romantici. Si tratta di una variante del modulo epico, composto di 16 canti, mentre l’ultimo, il 17esimo, che aveva con sé al momento della morte, rimase incompiuto.  (pare non avesse idea – o comunque non avesse deciso – di come portare a compimento il poema…)   Basato sulla leggenda di Don Giovanni, Byron ne inverte la storia, raffigurando il protagonista non come un famoso donnaiolo, ma come qualcuno facilmente e continuamente sedotto dalle donne.

Di seguito due sue poesie, tra le più conosciute, che non richiedono commento, essendo sufficiente tenere presente che siamo in pieno Romanticismo.

Ti vidi piangere

Ti vidi piangere: la grande lacrima lucente
Coprì quell’occhio azzurro
E poi mi parve come una viola
Stillante rugiada.

Ti vidi sorridere: la vampa di zaffiro
Accanto a te cessò di brillare;
Non poteva eguagliare i raggi che affollavano
Vividi quel tuo sguardo.

Come le nubi dal sole lontano
Ricevono un colore intenso e caldo
Che a stento l’ombra della sera vicina
Può cacciare dal cielo,

Quei sorrisi infondono nell’animo
Più triste gioia pura;
Il loro sole lascia dietro un fuoco
Che risplende sul cuore.

La poesia è giocata su quei due Ti vidi, ti vidi piangere e ti vidi sorridere, che ci introducono al rapporto del poeta con la donna amata, un rapporto interamente giocato con gli occhi, la grande lacrima e la luce che illumina (lui dice i raggi che affollavano) quello sguardo. Le ultime due strofe sono una grande similitudine: come le nubi ricevono un colore caldo dal sole che si allontana, al punto che la notte fatica a cacciare dal cielo la luce dorata del tramonto, così i sorrisi della donna amata infondono nell’animo una vera gioia, anche se è una gioia triste, velata di mestizia. Il loro sole illumina e dà forza a questi sorrisi, lasciando dietro un fuoco che risplende, che riscalda il cuore.

L’altra poesia s’intitola: 

Quando ci separammo

Quando ci separammo
    fra silenzio e lacrime,
coi nostri cuori infranti,
    lasciandoci per anni,
il tuo viso divenne freddo e pallido,
    più gelido il tuo bacio;
in verità quell’ora già annunciava
    il dolore presente.

La brina del mattino
    fredda mi si posò sul ciglio
sembrava essere il segno
    di ciò che provo ora.
Ogni tuo giuramento è stato infranto,
    la tua reputazione è molto fragile:
ascolto pronunciare il tuo nome
    enumerandone tutte le sue vergogne.

Davanti a me pronunciano il tuo nome,
    come un rintocco funebre ai miei orecchi;
e mi percorre un fremito, perché
    mi fosti così cara?
Loro non sanno che io ti conoscevo,
    ti conoscevo bene: a lungo, a lungo
dovrò rimproverarti,
    ed è troppo difficile parlare.

Ci incontravamo in segreto,
    ora in silenzio mi affigge che il tuo cuore
abbia già dimenticato, e il tuo spirito
    mi abbia così ingannato.
Se dopo tanti anni
  ti dovessi incontrare, in che modo
  potrei salutarti?
  Con silenzio e lacrime.

Con silenzio e lacrime. Conclude alla stessa maniera con cui aveva iniziato la lirica!  Oltre che molto bella, è anche incredibilmente struggente!  Ho scelto di proporla, tra tanti altri possibili testi, perché agisce sui sentimenti più intimi dell’animo. Come se Byron avesse dato voce ad un sentimento che, in qualche modo, ci appartiene. Nella prima strofa ci dice già tutto: lascia trapelare il racconto di quando si separarono, ci dice la modalità di quell’addio, fra silenzio e lacrime, con i cuori distrutti dal dolore e la consapevolezza che non sarebbe stato per poco, ma che era una separazione destinata a durare degli anni.  E proprio in quel viso freddo, pallido, in quel bacio di gelo, (sembra che il poeta parli di una persona già morta…) è già racchiuso tutto il dolore presente. La brina del mattino che si posa sul sopracciglio è solo un preannuncio, il presagio di ciò che sarebbe successo. Ogni giuramento infranto, usa ancora l’aggettivo che avevamo trovato al plurale nel terzo verso, infranto, cioè ogni promessa frantumata, spezzata, spazzata via, una reputazione che lui elegantemente definisce molto fragile, ma più realisticamente avrebbe potuto dire, sconveniente o pessima.

Poi una serie di versi in cui rivive, quasi risentendolo, il mormorio sprezzante, malevolo, della gente che parla della sua donna senza sapere (o fingendo di non sapere) che lui l’aveva frequentata, l’aveva amata.                            

Un rivivere sofferto, come un rintocco funebre, cui segue un rigurgito, lui dice un fremito: «perché mi fosti così cara…?»  Nell’ultimo verso della strofa, la consapevolezza che dovrà a lungo, lo ripete due volte, rimproverarla, ma già sa che sarà difficile parlarle. Alla fine, ritorna il ricordo, ci incontravamo in segreto, ma ritorna anche il dolore per il fatto che lei abbia tutto dimenticato.  In quel se dopo tanti anni ti dovessi incontrare, sembra di poter leggere una speranza mai sopita e mi piace pensare alla scena di un incontro fatto di silenzio, in cui prevalga la commozione e la tristezza in vista di un’impossibile riconciliazione. Come, in che modo potrei salutarti…. Come cancellare l’amore provato e il dolore sordo per i torti subiti che non sono solo un fatto di reputazione, ma sono qualcosa di personale, che ancora gli fa male?                                                                                     

Soltanto con il silenzio e con le lacrime, ovvero con un’interiorizzazione del tutto, dove la speranza continua ad essere presente.

Franco Rizzi