Quadrophenia è un neologismo anglosassone coniato per descrivere un soggetto affetto da un disturbo psichiatrico di tipo dissociativo la cui manifestazione principale è la coesistenza di quattro distinte personalità all’interno della stessa persona.
Condizione dilaniante per il corpo e l’anima che affligge Jimmy, il protagonista dell’opera rock degli Who del 1973, intitolata appunto “Quadrophenia”.
Jimmy è un MOD , un modernista. La storia del leggendario disco di cui parliamo è ambientata nel 1965, anno in cui questa subcultura urbana trovava ampio consenso tra i giovani britannici, grazie certamente alla musica, ma con più evidenza sociale a causa di una situazione di degrado gravissima in cui versavano gli sperduti ragazzi di estrazione popolare dell’epoca, abbandonati dalle istituzioni così fragili e ondivaghe che si susseguivano nel dopoguerra tra le rovine dell’ormai ex Impero Britannico, glorioso vincitore del conflitto mondiale, ad un prezzo davvero troppo alto per la gente comune.
Dopo gli anni cinquanta dei grandi fallimenti bellici e della costante riduzione del proprio territorio; dopo lo scellerato inquinamento da carbone culminato con i “giorni della nebbia” su Londra, dove le persone morivano soffocate agli angoli delle strade; dopo l’incosciente ed evitabilissima crisi di Suez; dopo le pietose figure patetiche sulla scena internazionale; dopo due, tre, quattro primi ministri cacciati da Downing Street da una giovane ed inesperta Elisabetta II; dopo il mancato rientro economico a seguito delle spropositate spese per la guerra; dopo il parziale menefreghismo statunitense, che si è prodigato nel piano Marshall ma che pare proprio si sia dimenticato del suo più grande nemico/amico britannico (Nonostante Keynes e nonostante Bretton Woods); dopo le super nazionalizzazioni radicali introdotte dagli sciagurati dicasteri dediti all’economia e allo sviluppo del lavoro…beh, dopo tutto questo pasticcio, si arriva alla metà degli anni sessanta piuttosto confusi.
Non c’è futuro, non ci sono ideali, non c’è coesione sociale. I nobili decadono, i ricchi sono sempre più ricchi e possibilmente emigrano in Francia, Italia o Montecarlo, i poveri dilagano nei sobborghi industriali sempre più alienanti e dimenticati.
E’ il tessuto infrastrutturale su cui può crescere il seme delle subculture giovanili.
Mancano riferimenti culturali idonei ad una crescita secondo dei precisi standard di valori? Benissimo, i ragazzi fanno presto ad inventare i propri idoli, le proprie correnti, le proprie attitudini. D’altronde, se sono dimenticati da tutti, dovranno pure arrangiarsi.
Così sfruttano quel poco che hanno, considerata la mancanza di istruzione e di mezzi, per costruire la propria identità: il calcio, la musica e il cinema.
Si suddividono in due precise branche che poi, nel decennio successivo, diventeranno decine e decine, perché le cose andranno ancora peggio; e si schierano, prendono posizione, con quello spirito di gruppo, quella necessità tutta adolescenziale di adeguarsi , di uniformarsi ad un simbolo, attaccarsi in maniera disperata a qualcosa in cui credere per essere accettati dal prossimo e non rimanere più soli in un mondo dove, quartiere dopo quartiere, si può letteralmente scomparire, inghiottiti dalla miseria.
Queste due fazioni sono i ROCKERS e i MODS; a questi ultimi appartiene Jimmy, sempre più dubbioso.
I rockers seguono le orme del “Selvaggio” Marlon Brando, con giubbotti di pelle, mazze da baseball e il sogno americano in tasca; sono i discendenti dei Teddy Boys, i duri bulli di periferia, amanti delle moto Triumph (perché le Harley sono irraggiungibili) e degli anfibi Doctor Martins. Hanno la loro divisa, il loro modus operandi, la loro folle logica da scazzati della vita, pronti a tutto pur di meritarsi alla fine della giornata l’agognata pinta di birra e la conquista di una “squinzia” bionda e scema, ad essi completamente asservita. Ascoltano il condannatissimo Rock’n’roll, ballano e si dimenano sulle note d’oltreoceano di Buddy Holly, Elvis, Little Richards e Jerry Lee Lewis. Sono armati di pettine, brillantina e coltello a serramanico, e scelgono di non lavorare. Spesso, essi fanno parte di famiglie relativamente agiate e si godono gli sforzi paterni per poter bighellonare tutto il giorno presso i pub agli angoli più temuti di Londra, Brighton, Liverpool o Birmingham.
E i Mods? I mods sono poveri, tremendamente poveri. I mods non sono solo bianchi come i Rockers, ma sono un’entità multietnica dove convergono inglesi, gallesi, scozzesi, giamaicani, ghanesi, kenioti, latinoamericani, indiani e pakistani. Per loro c’è poco pane sulla tavola e la speranza di un posto in fabbrica per potersi comprare gli elementi distintivi della loro specie: clarks, pantaloni a sigaretta, park o montgomery.
I capelli sono senza gel, rigorosamente a caschetto da “baronetto”, perché la via di fuga dall’indigenza è ostentare lo “stile”. I Mods fanno di tutto per mostrare il calzino a quadretti, sono attenti al dettaglio, hanno bisogno di una maschera nobile per nascondere le proprie origini modeste o le loro condizioni economiche e familiari a dir poco disastrose. Sono la contrapposizione perfetta a quei “figli di papà” dei Rockers a cui tutto è dovuto, dai Roy Rogers ai Levi’s.
Sono tantissimi e condividono un credo che va oltre ogni barriera: il calcio. In ogni città, dove si ammassano i Mods, c’è una squadra da supportare in maniera liturgica, una divinazione devota che porta questi ragazzi al rito del sabato, dove alle quattro c’è la partita e il mondo intero si ferma.
Novanta minuti in cui non esiste la povertà, la violenza, la solitudine, il fallimento.
Novanta minuti dove migliaia di cuori battono all’unisono.
Colonna sonora della loro esistenza è la musica beat inglese, con tutte le sue influenze. Per cui si spazia dal classico sound britannico di Beatles e Kinks fino a raggiungere la black music con lo ska o con il british blues proprio dei seminali “rude boys” (la frangia più incazzata dei mods, per la maggioranza composta da immigrati). Sonorità lontane che si adagiano perfettamente nelle situazioni più critiche delle periferie inglesi, dove risuonano le note oscure di una musica che solo all’apparenza appare scanzonata e felice.
Perché dentro c’è tutto l’odio di classe, tutta la frustrazione, tutta la disperazione di chi, ogni giorno, lotta per un futuro evidentemente inesistente.
Uno scontro quotidiano già perso in partenza.
Tra le due fazioni si sviluppa tensione e il bisogno di qualcosa in cui credere si trasforma ben presto in una deriva di violenza senza precedenti; gli scontri tra rockers e mods diventano leggendari. Migliaia di ragazzi dalla faccia amorfa, chi preso dalla noia e chi rapito dalla rabbia, sfogano le proprie disillusioni e amarezze scagliandosi nella propria guerra medievale, nei campi di battaglia ormai tristemente suggestivi come la simbolica spiaggia di Brighton, là sotto al molo, là sotto alla ruota panoramica, in mezzo a tutta quella strana quiete che da secoli contraddistingue le languide coste a nord della Manica.
Ma Jimmy non sa più se credere ancora in tutte queste stronzate. Jimmy è confuso, perché Jimmy non soltanto è intelligente, ma, come detto, soffre di un disturbo di personalità multipla. Le quattro identità dentro di lui sono gli Who del 1973, quasi dieci anni dopo gli Who del 1965, quando anche loro erano mods e cantavano “My generation”, orgogliosi di poter considerare il loro brano inno di tutti i modernisti del Regno Unito. Ma il periodo delle risse nella metropolitana, della Lambretta e dello stile working class hero era finito, e la metafora sta tutta lì.
Jimmy rappresenta gli Who che crescono e ogni componente degli Who è un aspetto della personalità di Jimmy. C’è tutta la storia della vita di Pete Townshend, Roger Daltrey, John Enthwistle e Keith Moon. Di Pete c’è l’angoscia e l’insoddisfazione di un genio incompreso, di Roger c’è la voglia di evadere e i sogni di gloria di un ragazzo dal talento immenso, di John c’è la taciturna e riservata esistenza di una creatura emotiva e delicata, di Keith c’è la disillusione verso il futuro e l’intento di fuggire da tutto con l’abuso di sostanze di ogni tipo.
E tutti loro, prima, erano mods come Jimmy o meglio, erano tutti Jimmy .
Ma dentro questo giovane perso tra le strade di una Londra fumosa e ostile c’è bisogno di cambiare. C’è qualcosa che va ben oltre questo dualismo, ben aldilà di un paio di scarpe per distinguersi. C’è la consapevolezza dell’oblio, l’inevitabile fine di una gioventù che in un batter d’occhio ti catapulterà nell’età adulta senza arte né parte, senza mezzi, sempre che tu ci arrivi vivo.
Perché ogni giorno, quando si fa sera, un Mod e un Rocker muoiono, ma al mondo non gliene frega un cazzo e tutto andrà avanti come niente fosse.