In attesa della promessa pax trumpiana, guardiamo a ritroso alla Conferenza di Jalta, che si svolse dal 4 all’11 febbraio 1945 e fu sinonimo di divisione dell’Europa. Ancora oggi, a 80 anni di distanza, gli storici non sono d’accordo nel dare un giudizio univoco su quanto avvenne. Ci fu una spartizione dell’Europa da parte delle grandi potenze? Si compì un tradimento nei confronti di mezza Europa? La questione della divisione fu soltanto una leggenda di cui il Generale De Gaulle fu un grande propagandista? Jalta portò alla divisione del mondo in sfere di influenza che diedero inizio alla guerra fredda? Va precisato che a Jalta non ci furono trattati né accordi. Non fu steso alcun documento internazionale vincolante che obbligasse le potenze occidentali a piegarsi alla sovietizzazione dell’Europa o un qualsiasi accordo che comprovi un simile patto diabolico. (G.H. Soutou).

Ci furono solo colloqui che produssero un protocollo e una serie di appunti sui temi trattati. Questo perché le decisioni assunte a Jalta erano già state prese nella Conferenza di Teheran del 1943 o in altri consessi. L’unica eccezione fu quella di dare alla Francia, che aveva perso la guerra e che era stata salvata dagli angloamericani, il rango di potenza vincitrice concedendole una zona d’occupazione in Germania, ricavata da quella americana e britannica. Questa decisione fu sostenuta da Churchill, leader inglese, interessato a impedire che una sola potenza, l’Urss, avesse il controllo dell’Europa continentale. Per avere un quadro preciso, bisogna considerare che al momento della Conferenza di Jalta l’Armata Rossa era a 80 km. da Berlino, mentre gli alleati occidentali non avevano ancora guadato il Reno, dopo essere stati ostacolati dalla controffensiva tedesca nelle Ardenne. Stalin, inoltre, fatto non trascurabile, stava intervenendo con particolare forza nelle istituzioni interne di tutti i paesi occupati dai sovietici, rendendo inutile la discussione di nuove frontiere. (H. Kissinger).

Churchill era ansioso di discutere le posizioni politiche del dopoguerra, ma era leader di un paese, la Gran Bretagna, ormai allo stremo delle forze, il cui ruolo nello scacchiere del mondo era più onorifico che effettivo. Roosevelt, giunto in aereo a Saki e già gravemente ammalato, dovette percorrere in macchina i 110 km. che lo dividevano da Jalta, posta sulla costa meridionale della Crimea, attraverso strade innevate di montagna lungo le quali i soldati sovietici in armi erano posizionati ogni cinquanta metri. Il Presidente americano mirava a tre cose: ottenere la partecipazione sovietica alla guerra contro il Giappone; strappare l’assenso sovietico a partecipare alle future Nazioni Unite, intese come suprema istituzione in grado di regolare le vicende del mondo che tentava di uscire dalla guerra e, terzo, voleva impedire che diventasse di assoluto dominio di Mosca la sfera di influenza sovietica prodotta dall’avanzata dall’Armata Rossa. Stalin lasciò che ognuno dei due colleghi seguisse un proprio ordine del giorno e non si opponeva alla trattazione dei singoli argomenti, ben sapendo che il tempo impiegato per discuterli sarebbe stato sottratto al dibattito dei temi che riguardavano l’Europa orientale.

Alla fine, a Jalta fu raggiunta una soluzione, che permise a Roosevelt di tornare al Congresso da vincitore, con l’accettazione di Stalin delle Nazioni Unite, la firma della Dichiarazione sull’Europa liberata da parte dei tre leader e l’impegno sovietico di affiancare gli americani nello sconfiggere la potenza nipponica. Ciò che Stalin concesse, furono in realtà solo favori apparenti: alle Nazioni Unite, infatti, pretese il diritto di veto permanente, mentre la sua politica estera successiva dimostrò che quanto scritto nella Dichiarazione veniva considerata un’ingerenza negli affari interni dell’Europa orientale e, in particolare, nei territori occupati dai sovietici. In cambio della partecipazione al definitivo annientamento del Giappone, Stalin ottenne il controllo della Manciuria e una sfera di influenza nella Cina settentrionale. A farne per prima le spese fu la Polonia, rapidamente inglobata da Stalin nel suo dominio, senza che gli alleati potessero impedirglielo.

Di diverso parere la lettura della storica D. S. Clemens, autrice del volume Jalta (1970), ancor oggi studiato nei college americani, secondo la quale quello di Jalta è stato uno dei più importanti incontri della storia contemporanea, perché portò i tre più potenti leader del tempo a tentare di dare una formula al dopoguerra. «Questo tentativo avvenne mentre la seconda guerra mondiale era ancora in corso, anche se la disfatta tedesca era quasi certa. Fu un meeting straordinario, perché tentò di costruire un mondo che sapesse vivere in pace come mai prima era avvenuto». Secondo la storica americana, con Jalta non iniziò la guerra fredda, perché Roosevelt incontrò Churchill e Stalin come alleati, che stavano combattendo su un unico fronte contro la Germania nazista, «anche se – ovviamente – non si possono mettere sullo stesso piano la democrazia degli Stati Uniti e la dittatura sovietica». Ciò che successe dopo è storia che molti di noi hanno vissuto.
Per due o tre anni i sovietici lasciarono che la gente s’illudesse: libere elezioni, governi autonomi composti da più partiti politici. Poi tra il ’47 e il ‘49 gettarono la maschera e subito risuonò il terrore. Le ferite inferte alla cultura dei paesi occupati, all’antica civiltà della Mitteleuropea, all’identità stessa delle nazioni asservite, provocarono la ribellione. Vennero Berlino ’53, Poznan e Budapest ’56 con i carri armati sovietici nelle strade, l’allucinante occupazione di Praga del ’68, la caduta del muro del novembre ’89.

E oggi? Smarriti gli antichi valori, l’Europa è assente dalla scena mondiale. Senza un progetto comune, senza soluzioni da proporre. L’Inghilterra fuori dall’Unione, le elezioni in Germania, le crisi di governo in Francia, l’annullamento delle elezioni in Romania, l’Ungheria di Orbàn apertamente favorevole al Cremlino, l’Italia divisa anche a Bruxelles. L’Europa delle istituzioni non può esistere senza l’Europa dei popoli. La prima non ci potrebbe essere senza la seconda.
I segnali non sono buoni. Né, tanto meno, incoraggianti.
Franco Rizzi