La Contea di Modica: usi e costumi

Parliamo ancora di Ester La Rocca di San Germano e di un suo libricino. “Sunto Storico”, prologo, quasi una presentazione, apre le 100 pagine di questo opuscolo dove storia, costumi e usanze, religione, superstizione, e gastronomia si intrecciano per formare uno spaccato, visto al femminile , della vita degli Iblei all’inizio del 1900. L’autrice ammira i Siculi :”adoravano la dea Cerere, abolirono la poligamia ed elevarono la donna, prima tenuta schiava, a compagna dell’uomo”; e ricorda gli antichi nomi siculi, oggi dimenticati di Chiaramonte –Erbesso, Siculi-Scicli, Icana –Giarratana. Non manca un omaggio alla sua nuova famiglia e ricorda i primi La Rocca che vennero a Ragusa con il Conte Silvestro: Santoro e Apollonio, primo gran Giustiziere del Regno di Sicilia. Un pensiero ha pure per Ragusa, “detta anche Cosenza” secondo la leggenda dell’arrivo di “profughi cosentini “che vennero ad abitarla. Dedica al dialetto siciliano un lungo e complesso capitolo. Annota che ogni Comune ha un suo modo particolare di esprimersi, con gesti speciali ed un suo dialetto, e discute con il prof Giuseppe Pitrè (medico, letterato, famoso etnologo siciliano, Palermo 1841-19169) , più volte ospite nel suo palazzo, della grande varietà di queste parlate, soffermandosi in particolare su quella della contea di Modica, sulle parole che ogni popolo che ha dominato la Sicilia vi ha lasciato. Ne riporta svariati esempi: gli Arabi zagara per fiore d’arancio, coffa per sporta; gli Angioini tombare per cadere, truscia per fagotto e tanti altri.

I nativi cambiano il significato delle parole italiane: cattivo vuol dire vedovo, trippa vuol dire gioco, aguzzino, il povero impiegato comunale che redige il certificato di matrimonio ( non potrebbe esserci peggiore augurio!) pisci r’uovu, la frittata ripiegata su stessa, chiddi c’addumanu senza fuocu, gli zolfanelli, mi lore u stomacu, lo dice chi non ha bisogno del medico e di medicine, ma ha solo una gran fame!. Ma dove si perde l’idea dei nomi da cui derivano, è nei diminutivi; si può mai supporre che Zedda, Zidda, Zudda, Pudda, Tudda sono i derivati di Maria, Gaudenzia, Orazia, Giuseppa e Agata? un vero tormento per chi non è del posto e si trova a parlare con gli abitanti della Contea. Mai una donna del popolo dirà: “ mio marito”, ma”il padre dei miei figli”, perché marito è chiamato il cilindro di legno che si mette sulla valvola del forno a pietra quando è ben caldo e si inforna il pane!

Per carnevale fanno dello spirito con discorsi pieni di malizia, e nonostante la confusione che creano i doppi sensi, tra di loro si intendono benissimo, con una strizzatina d’occhi o un gesto impercettibile, che ribalta il senso del discorso che stanno facendo. Enfatizzano le loro conversazioni con l’intercalare come: ca possa morri fulminato, privu ra vista ri l’uocci o invocando la Madonna: bedda Matri o Carminu, Matri addulurata o San Ciuanni Battista, facendo rizzare i capelli in testa al loro interlocutore che non si aspetta queste invocazioni di carattere religioso. Anche nel rivolgersi alle persone veniva rispettato un preciso linguaggio, che definiva la classe di appartenenza: ai nobili toccava voscenza (vostra eccellenza), vossia (vostra signoria) ai preti e alle persone di riguardo, don e donna –residuo spagnuolo-ai benestanti e ai “civili”, ‘gnura (signora) alle ricche massaie, gna‘ ai contadini e agli artigiani in generale, pa’ e ma’ ai genitori, e signurinu al nobile cadetto, anche se aveva 90 anni! Oggi si usa il “lei” e solo in ambiti strettissimi si può sentire qualcuno usare ancora questo linguaggio.

Tuttavia la più singolare usanza si trova nel “comparatico” conferito con il Battesimo.“C’è ro mienzu u San Ciuanni” (c’è in mezzo il San Giovanni), proprio così, con l’articolo che precede il nome del Santo. Diventano “compari” o “comari” il padre del bambino/a e il padrino/ o la madrina del battesimo; il sacramento, impartito al neonato/a, istituisce un legame fortissimo tra due individui e le rispettive famiglie, più forte del legame di sangue tra gli stessi parenti, perché è San Giovanni (non il prete celebrante) che conferisce il comparato con il Battesimo e soddisfa l’ancestrale bisogno di appartenenza ad una sfera sovrannaturale che gli uomini non possono dare: è la ripetizione, forse neppure consapevole, del Battesimo di Cristo nel Giordano ad opera di San Giovanni Battista.

Questa nuova parentela allontana quella del sangue, e il legame così formato, puramente spirituale, impone un grande rispetto e una grande considerazione tra le parti. I compari e le comari, (anche se sono fratelli e sorelle) si danno del “voi”-plurale maiestatis!-e in tutti gli affari delle rispettive famiglie si consultano e tengono in gran conto il parere del compare che non tradirà mai questo legame psico-religioso. Quando è cominciato il comparato? Nella notte dei tempi, tenendo conto che il culto di San Giovanni esiste a Ragusa da sempre, e che a tutt’oggi il comparato è ben presente nelle classi sociali meno abbienti. L’autrice ha certamente un livello culturale superiore a quello che si può supporre per una signora della sua classe sociale: i suoi interessi esulano dal campo della poesia, sono molteplici e rivolti alla vita di ogni giorno. Si nota una netta distinzione tra quello che ha appreso da altri dopo il suo arrivo a Ragusa- storia e racconti vari- e quello di cui lei stessa è stata spettatrice o partecipe: usanze, costumi , religione.

Le sue poesie sono state pubblicate anche assieme a “Giustizia”, versi del catanese Mario Rapisardi, in un volume stampato a Catania nel 1883, a dimostrazione che l’A. era in contatto con letterati di alto livello e che a Ragusa , nonostante il suo apparente isolamento topografico, vi erano fermenti culturali di notevole spessore. Anche di questo dobbiamo essere grati a questa signora che venuta dal profondo nord si è portata appresso un vento di femminilità e di poliedrici interessi.

Andrea Ottaviano