Le favole parlano spesso di esotici regni misteriosi, confinati oltre i monti altissimi dell’Himalaya, nelle oasi tra i deserti della Persia o negli arcipelaghi dell’Indocina. La letteratura ottocentesca ci ha abituati a principesse figlie di regnanti, dai grandi occhi scuri, spesso velate e innamorate sempre della persona sbagliata, mai del marito designato da severi emiri o marajà. Esistono però alcune “principesse” che provengono dall’occidente, ossia dal continente americano, tra le quali, famosissima è la bella fanciulla indiana Pocahontas, la figlia di Powhatan, governatore di una regione che comprendeva praticamente tutte le tribù vicine alla regione Tidewater nella Virginia. I suoi nomi formali erano Matoaka e Amonute. Pocahontas era solo un soprannome infantile che faceva riferimento alla sua natura vivace e che possiamo tradurre come “piccola svergognata”. Le vicissitudini della principessa indiana, ribattezzata Rebecca e che sposò il colono inglese John Rolfe, vennero narrate in decine di racconti e romanzi, anche se poco si conosce della vera storia e il mistero avvolge tuttora l’intera vicenda.
Un’altra principessa, ma forse più una regina seppur priva di sangue blu, è un vegetale. La caratteristica di questi viventi è principalmente l’immobilità. Gli alberi, i cespugli e i fiori hanno regalato all’uomo la capacità di spostarsi sul pianeta. Questo “moto” viene da noi visto come segno di libertà, come possibilità di sperimentare, di costruire la memoria sia individuale che collettiva, indispensabile per “emanciparci”. I vegetali, sono comparsi sulla terra molto prima di noi e la sanno lunga: utilizzano i nutrienti e l’acqua direttamente dai suoli, fiumi, laghi e mari, con i loro tessuti captano l’energia dalla luce e soprattutto non hanno nulla di scritto o codificato. Sono esseri immorali, in quanto non necessitano di leggi scritte o tramandate. Se si vuole essere più sottili bisogna ammettere che anche i vegetali rispondono ad un loro ferreo codice etico …. che non è certo il nostro.
Torniamo alla “regina” vegetale venuta dall’occidente e al suo nome poco regale: la patata. E’ questa una pianta erbacea appartenente alla famiglia delle Solanaceae, originaria dell’America centro-meridionale, portata nel vecchio continente dagli spagnoli intorno al 1570. La diffusione della sua coltivazione fu lentissima, influenzata da una diffidenza nei confronti di ciò che “cresce sottoterra” fino ad arrivare ad affermare che il consumo diffondesse la lebbra e ad asserire che si trattava di “cibo flatulento”. Ciò nonostante verso la fine del 1700 anche in Italia la patata iniziò ad essere coltivata e ad alleviare la fame che era una calamità che decimava le popolazioni alpine e le costringeva ad emigrare.
Come tutte le regine anche la patata dimostrò di avere un lato cattivo del suo carattere. Verso la metà dell’800 la peronospora, una malattia che ne distrusse i raccolti, causò carestie insostenibili, soprattutto in Irlanda, causando una massiccia emigrazione verso l’America. Ironia della sorte: la regina pretese che venisse pagata con “uomini” la sua capacità di nutrire le povere comunità contadine. La patata si coltiva in sulle Alpi da secoli; insieme al mais e al pomodoro può essere considerata uno dei migliori regali che il Nuovo Mondo ci abbia fatto. Cosa sarebbe la tavola senza questi nostri amici? Mica si può vivere come Bertoldo solo di rape e fagioli!
Un’esperienza qualificante, che vide la Valle Camonica, protagonista negli anni 40 del secolo scorso, fu la sperimentazione di una nuova varietà di patate. Queste furono introdotte sull’altopiano del sole (Borno-Lozio-Ossimo) dall’agronomo Trebbo Trebbi, uno strabiliante, eclettico signore ferrarese, bresciano d’adozione, sul quale ho letto molto e di cui posso dire che spese bene i suoi 104 anni di vita, lasciandoci tantissime esperienze di buone pratiche non solo agricole. Giancarlo Zerla, un amico che lo ha conosciuto di persona, può testimoniare come la varietà “San Carlo” brevettata sui campi di Ossimo, un ameno borgo camuno, sia stato il frutto di un coraggioso esperimento che vide il vulcanico agronomo, la popolazione, il sindaco e il parroco tutti insieme impegnati per la buona riuscita della coltivazione. Giancarlo riporta in un suo scritto, pubblicato sulla rivista Alpes del 2006, la soddisfazione di Trebbo al primo raccolto: “… Ricordo che eravamo nelle vicinanze del paese a nord della collina di San Carlo, seminammo in primavera, poi ad ottobre arammo per la raccolta; in quei campi vidi uscire dal solco più patate che terra: patate grosse, ovo-tondeggianti, con buccia ruvida ma sane e belle grosse, tuberi a pasta bianca, che non presentavano che pochissimi difetti dovuti a parassiti. Insomma, un bel prodotto, una grossa soddisfazione per tutti…”. Qualcuno curioso potrà chiedersi come mai del nome del nuovo tubero. Trebbo Trebbi aggiunse: “…“Il nome glielo dico io dove lo abbiamo Preso. Insieme guardammo la chiesetta su una collina, era la chiesa di San Carlo. Uno dei presenti allora suggerì: la potremmo chiamare Patata San Carlo. Brindammo alla soluzione, nessuno ebbe da obiettare sulla scelta del nome di quel tubero che selezionammo e in seguito sperimentammo per più di dieci anni anche altrove, nella stessa Valle Camonica e in Val Seriana”.
Enzo Bona