L’antica usanza delle foto post mortem

Oggigiorno verrebbe giudicata macabra e di cattivo gusto ma nell’ottocento le foto post mortem erano una pratica assai diffusa. Un modo con il quale l’essere umano tentava di superare il dolore della morte mantenendo nel contempo viva la memoria del defunto. Sì ci fu un’epoca in cui queste foto erano molto diffuse e di moda. Stiamo parlando del periodo tra il 1837 e il 1901 in cui la fotografia post mortem fu una delle pratiche più iconiche dell’epoca vittoriana. L’esigenza di avere un ricordo del defunto tuttavia risale a tempi ancora più antichi. Già nel periodo dei romani si creavano delle maschere tramite un calco del viso del defunto e in epoca rinascimentale le famiglie più abbienti facevano fare un dipinto del congiunto sul letto di morte, un lusso estremamente costoso. Nel XIX secolo la diffusione della dagherrotipia, il dagherrotipo era un’immagine piccola molto dettagliata su argento lucido, avendo un costo molto più basso diffuse la pratica anche presso le classi medie. Dal 1840 fu così talmente tanto usata da diventare una delle più grandi fonti di guadagno dei fotografi di quei tempi. La gente era disposta a pagare più per una foto post mortem, che per le foto per un battesimo o un matrimonio e il motivo era molto semplice, la morte a quei tempi era onnipresente nella vita delle persone. Non a caso in questo periodo si afferma la letteratura gotica, atmosfere oscure e macabre facilmente rintracciabili nei visi di quelle foto che hanno un comune denominatore: in esse non vi sono mai sorrisi. Questo era dovuto sia alla difficoltà di mantenerli per un tempo sufficiente alla posa, sia perché l’occasione proprio non lo richiedeva. Negli anni cinquanta dell’ottocento la lastra lucida di argento venne sostituita da metallo sottile, vetro o carta, rendendo accessibile a tutti il procedimento, in quanto i costi si abbassarono ulteriormente. Molto spesso quella risultava essere l’unica foto della persona, posseduta dai parenti e questo può sembrare assai strano oggigiorno.

La fotografia post mortem potrebbe quindi essere paragonata a una specie di mummificazione visiva, che preservava il defunto immortalato, dalla decomposizione a cui il suo corpo inevitabilmente sarebbe andato incontro. Possiamo benissimo paragonarla a un’antica e radicata pratica egizia, la tanatometamorfosi, che però aveva fini diversi, doveva garantire il viaggio verso l’aldilà del defunto. Ma perché questa usanza era così diffusa? In realtà la morte era una costante compagna di vita, essendo molto elevata. La rivoluzione industriale aveva ammassato nelle città, con la speranza di lavoro e guadagni, una grande quantità di popolazione creando una massa di diseredati e poveri. Naturalmente nelle fabbriche venivano impiegati anche i bambini e il loro sfruttamento, nonché le pessime condizioni igieniche, colera e tifo erano all’ordine del giorno, insieme al proliferare di una grande quantità di malattie veneree, portavano facilmente alla morte. Dopo l’avvento della fotografia la gente cominciò a farsi fotografare con i loro morti. Le prime foto raramente includevano anche la bara, erano solo del viso e del busto del defunto. Poi si passò al cosiddetto last sleep, ultimo sonno, dove il morto appariva steso sul letto o su un divano, era truccato e sembrava che dormisse serenamente. Spesso la scena era addobbata con fiori, croci o libri di preghiere. Molto spesso insieme al defunto posavano anche i familiari in una specie di ritratto di famiglia, che spesso era l’unico in possesso della stessa, da cui venivano poi ricavate delle copie, distribuite ai parenti.

Più avanti i ritratti post mortem assunsero perfino delle sembianze teatrali. Il morto appariva seduto con gli occhi aperti, ritratto in una situazione conviviale del tutto normale come se fosse ancora in vita. La finzione era talmente ben fatta che nelle foto di gruppo era difficile distinguerlo dai vivi. Non c’ erano simboli che richiamassero la morte o il distacco dell’anima dal corpo. Questo avveniva soprattutto per i bambini che venivano immortalati insieme ai loro giocattoli. Ma come si ovviavano le evidenti difficoltà? Gli occhi dei defunti venivano mantenuti aperti con dei bastoncini, oppure disegnati direttamente sulle palpebre chiuse o ancora, in un sistema antesignano del fotoritocco, disegnati sulla carta. Per molto tempo circolò il mito che i cadaveri venissero tenuti in piedi da dei piedistalli, in realtà non avveniva mai, erano sempre fotografati seduti o sdraiati. I piedistalli c’erano sì, ma per i vivi che dovevano rimanere fermi ore durante la posa, un piccolo movimento poteva rovinare la stampa. Le foto post mortem caddero completamente in disuso dal 1940, attualmente sono praticate solo nell’ambito di alcune chiese orientali.

Un discorso a parte meritano i bambini. La mortalità infantile in quel periodo era altissima al punto che a volte i genitori non davano nemmeno il nome al loro figlio per non affezionarsi troppo e soffrire. Sì avete capito bene. Con l’avvento della fotografia le immagini dei neonati in braccio ai loro genitori si moltiplicarono. Per avere un ricordo del figlio, nel caso la morte lo avesse raggiunto, e se avveniva, veniva ritratto in situazioni di vita con gli abiti buoni, mentre giocava, spesso attorniato dai fratelli. Vista la grande richiesta di questo genere, i fotografi si organizzarono, i piccoli venivano ritratti in piedi, sorretti da un adulto, che veniva mascherato con un drappo nero, poi ritoccato nella foto. Per coverso proprio questo rimaneggiamento, fu uno dei più grandi motivi di diffusione dello spiritismo dell’epoca vittoriana, dando la possibilità ai medium di abbindolare i poveri genitori.
Infine per capire a fondo questo fenomeno, così lontano dalla nostra concezione, bisogna dire che la morte non veniva vista come qualcosa di macabro e straordinario, era la parte naturale della vita ed era semplicemente un modo per processare il lutto e il dolore che ne derivavano. Guardare quelle stampe crea, comunque, una profonda e infinita tristezza. 

Sonia Filippi

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