Sullo sfondo di una poeticissima Venezia, quasi a celebrare un’amicizia che va avanti da anni, hanno deciso di scrivere a quattro mani. Versi naturalmente. Stiamo parlando di Davide De Cia, classe 1994 che è alla sua prima pubblicazione e di Alessia Lombardi, pluripremiata e già conosciuta all’interno della PlaceBook Publishing & Writer Agemcy. Insieme hanno dato alle stampe “L’attrito” silloge poetica davvero particolare. E insieme abbiamo pensato di intervistarli.
Perchè avete scelto di scrivere questo libro a 4 mani?
A.L:L’idea di una raccolta poetica a quattro mani è stata mia, e il primo tentativo di gestazione risale ormai a dieci anni fa. Ero nel mio periodo leopardista più strenuo, più convinto; ne derivavo una scrittura arcaica e, adesso posso ammetterlo con serenità, estremamente altisonante. Davide – che mantiene da allora la sua scrittura “piana” – ne era stranamente incuriosito. C’era, tra di noi, un attrito fortissimo, evidente; come lo scoscendimento di una montagna. Eppure, il termine “attrito” ci è sembrato lecito soltanto dieci anni dopo; adesso che, forse, l’attrito è meno palese. Ma comunque vivo.
D. DC: Quando, tramite Facebook, conobbi Alessia, mi catturò il suo modo di scrivere. Un modo estremamente diverso dal mio. Non so perché mi colpì, forse perché – sebbene complesso e a tratti arcaico – mi sembrava (e sembra tuttora) più vero del mio. Si potrebbe obiettare che il mio, in quanto relativamente semplice, è più immediato. Non lo so, può essere. Io sono Dante, lei Leopardi: distanti tra loro cinque secoli, alla fine entrambi hanno visto l’infinito. Ma sto parlando d’altro… insomma, alla fine, mi pare che fosse diventato inevitabile scrivere un libro assieme a colei che, pur avendo uno stile opposto, una concezione della vita differente, ho sempre stimato e a cui sono grato per aver essere stata aperta al confronto. Ritengo che ciò non sia da tutti.
Ci raccontate com’è stata questa esperienza?
A.L:Non credo si possa parlare di una vera e propria esperienza. La nascita di questo libro è stata per lo più la conseguenza di uno scambio – di pareri, di considerazioni – maturato poi nella volontà di renderlo tangibile: la testimonianza di un percorso parallelo ma con lo stesso fine. Ideale, estetico.
D.DC: È buffo, perché di per sé la domanda è molto semplice. La risposta, almeno per me, è complessa. Potrei dire che è stata senz’altro un’esperienza molto bella, che mi ha permesso di “studiare” meglio lo stile di Alessia e sforzarmi di essere meno cattivo nei miei confronti… intendo dire che io tendo ad attuare sempre una feroce autocritica verso i miei testi. Ogni qualvolta che rileggo quello che ho scritto, la prima volta non mi lamento; dalla seconda in poi inizio quasi a vergognarmi di quanto ho composto, non lo ritengo “all’altezza”, incapace di aver espresso al meglio quanto volevo. Non sto allora a dire quanta fatica faccio a rileggere le mie composizioni degli anni passati. Scegliere, spronato da Alessia, quelli più adatti alla raccolta, è stato più difficile di quanto pensassi.
Per chi non vi conosce, chi è Davide De Cia e Alessia Lombardi?
A.L: Domanda da un milione di dollari. Sono quello che scrivo. In ogni caso.
D.DC: Davide De Cia è un ragazzo riservato a cui piace la storia, scrivere, fotografare, ed ascoltare musica. Per le altre cose che egli è, non saprei, bisognerebbe chiederlo alla sua famiglia o ai suoi amici.
Come vi siete avvicinati alla Poesia?
A.L: L’amore per la poesia è esploso con Leopardi, tra la quarta e la quinta elementare. Ho sempre inventato, sempre scritto, già prima dei sei anni, ma prima di Leopardi la poesia non era, per me, qualcosa che potessi… replicare. La vicinanza di certe immagini, di certo sentire, ha scavato una voragine tra la mia vita e l’uso della parola.
D.DC: Potrei citare l’incipit della canzone Un matto di Fabrizio De André: «tu prova ad avere un mondo nel cuore / e non riesci ad esprimerlo con le parole». Riporto questa espressione perché dalle medie fino alla fine del liceo, sono sempre stato una persona molto chiusa in sé stessa, timida e timorosa di disturbare. Questa introversione mi portò a prediligere la forma scritta piuttosto che quella parlata per esprimermi; difatti, quando ho iniziato ad essere più socievole, il numero di poesie scritte in un anno è calato. Ricordo l’estate del 2010, quando a momenti scrivevo tre/quattro composizioni a settimana, ed ora che ne scrivo una in un mese e mezzo. Certo poi dipende da numerosi fattori, perché l’ispirazione è imprevedibile… ma sto divagando; se quindi dovessi dire un anno in cui ho iniziato a scrivere poesieconsapevolmente, dico il 2008. È pur vero che dalmedesimo anno, più che poesie mi divertivo a scrivere canzoni “mute”, ovvero testi senza musica. Mi spiego, ascoltavo canzoni ed immaginavo di sostituire il testo “ufficiale” con quello che avrei scritto io. Ora questa cosa è venuta decisamente meno, ma permane la ricerca di una musicalità, di una sonorità delle parole che utilizzo, di fare appunto liriche. Da qui la passione per la corrente artistica del simbolismo.
A vostro giudizio nel mondo c’è bisogno di Poesia?
A.L: La poesia c’è. Da sempre. È senza stato, ed è un bisogno non perfettamente e compiutamente appagabile. Talmente variabile da non potersi esprimere in alcun termine. Semmai, è più facile dire che l’uomo ricerca, da quando la vita esiste, la bellezza; e in essa il mostro e l’orrore. E magari in questo rientra il bisogno di poesia.
D.DC: Qui, al posto di rispondere io, lascerei parlare uno dei miei ispiratori, Eugenio Montale. Ma siccome verrebbe una risposta che non finisce più, mi limiterò a dire che mi è venuto in mente Montale per il discorso che pronunciò quando gli consegnarono il premio Nobel per la letteratura. Il suo monologo si interroga proprio se sia “possibile la poesia oggi”. Era il 1975, eppure trovo le sue parole di grande attualità, perciò ne consiglio la lettura. La mia parola è la sua, la poesia continuerà ad esistere, e il mondo ne ha bisogno…
E i giovani, come voi del resto, ne hanno bisogno?
A.L: I giovani hanno bisogno della poesia tanto quanto i meno giovani, gli adulti, i vecchi. Così come possono non averne affatto. Tutti allo stesso modo. Come già dicevo, la poesia è onnipresente e onnivora. Si nutre di tutto e di chiunque.
D.DC: … Per cui, ultimando la risposta alla domanda precedente, ritengo che i giovani hanno anche loro bisogno della poesia. Forse più degli altri, perché è nelle loro mani che sta il futuro. Se è vero che “la bellezza salverà il mondo”, la poesia e le arti sono quegli strumenti che devono aiutare i giovani a coltivare tale bellezza.
Che significato ha per voi l’attrito?
A.L: Dico sempre scherzosamente a Davide, a proposito di questo titolo, che è stato l’illuminazione più geniale della mia vita. Credo di avere una vera e propria “fissazione” per i titoli, per la loro capacità quasi obbligata di evocare tutto nel nulla di poche lettere; e riassumere i caratteri di un rapporto in una parola unica, netta, stagliata sopra tutto il resto, è probabilmente la cosa più difficile che uno scrittore, un poeta possa fare. Con Davide ci siamo conosciuti negli anni in cui Facebook era ai suoi albori – quando ancora c’erano i poke e il diario si chiamava bacheca. Lui scriveva testi di canzoni, io imparavo sotto l’egida di mio nonno materno a suonare la chitarra. E componevo le prime cose. Mi chiese di musicare un paio dei suoi testi, complice una passione comune per Lucio Battisti. A parte questo, però, siamo sempre stati diversi. Oserei dire completamente agli antipodi. Dalla visione spirituale a quella storica, allo stile poetico. L’attrito è la nostra convergenza – prima casuale poi voluta, ricercata – che da oltre un decennio ci spinge a confrontarci e a collaborare.
D.DC: L’attrito è qualcosa che si incontra-scontra… non mi è facile spiegarlo bene, lo ammetto. Mi viene in mente il mio cantante preferito, Lucio Battisti. Nella sua ultima intervista prima di chiudersi ai giornalisti, disse «per me la vita è un contrasto di forze contrastanti… (‘mazza che bell’italiano)». Pare quasi capiti a fagiolo per descrivere l’attrito. Non è un qualcosa di negativo per forza: è grazie alla relazione, a questa convergenza che possono nascere cose belle, interessanti, che permettono di conoscere e conoscersi meglio. Ma se la domanda è anche riferita a cosa sia per me L’attrito inteso come la raccolta in sé, per me è anzitutto una soddisfazione, il vedere che evidentemente quello che ho scritto può piacere, essere “esibito” e… unito a chi, come dicevo nella prima risposta, ha un diverso modo di scrivere e vedere il mondo.
Cosa ha ispirato le liriche contenute in questo libro?
A.L: Per quanto mi riguarda, ad eccezione de “L’attrito”, i testi scelti sono quanto rimane di due o tre sillogi scritte in brevissimo tempo intorno ai ventidue anni. Hanno subíto un processo di revisione e di adattamento piuttosto lungo, e hanno matrici sicuramente molto particolari: sogni, racconti popolari, reminiscenze di prime esperienze dell’adolescenza, fatti, avvenimenti concreti, letture di Emily Dickinson, ascolti notturni di Nick Cave. Contengono tratti sacri, tratti profani, tratti assurdi. Ma non sono nessuna delle tre cose. Semplicemente raccontano. Sta a voi scegliere il soggetto. Per questo vivono bene in una dimensione orale, o meglio, teatrale. Ludica e ingegnosa, quasi.
D.DC: Si potrebbe dire che alla fine, ad ispirare le mie poesie sono stati solo due fattori. Il primo è una melodia, una musica, che mi ha più o meno inconsciamente detto le parole adatte, con la sonorità giusta, per esprimere quello che volevo. Il secondo fattore è quello che si legge nella dedica, ovvero volti, persone, situazioni. Ma della questione della dedica parlerò meglio nella risposta successiva.
Per Alessia: in che modo cerchi di innovare il verso poetico?
Nella Nota ai testi parlo di qualcosa di senz’altro singolare, o che almeno lo è in apparenza: “La mia personale ricerca in direzione della lirica vocale perviene alla traslitterazione interpretativa, a una struttura/tipologia testuale autoconclusiva di tipo figurativo-musicale: come all’interno di una partitura, le parole – ed eventuali legature – costituiscono figure di suono, l’interpunzione figure di silenzio; a raccordarle, un gruppo di tonalità (di scala maggiore o minore) o, più semplicemente, l’armatura di chiave – che appare all’inizio di una linea musicale per indicare quali note-parole dovranno essere modificate in sua funzione dallo stato originale.” In realtà, non è tanto innovare ciò che ritengo più urgente. Non tanto l’innovazione quanto l’originalità, la tecnica, il modo. La poesia è sempre la stessa da millenni. Ma è il modo di raccontarla a fare la differenza.
Per Davide: una poesia una dedica, si scrive sempre per gli altri?
Immaginavo che sarebbe balzato agli occhi il fatto che ogni mia poesia ha una dedica. A onor del vero, ho scritto anche poesie dedicate a me stesso, che di solito sono le più brutte. A parte gli scherzi, è una cosa che si ricollega a quando dicevo che la mia passione per la poesia è nata come risposta alla timidezza, per cui era come se adottassi lo stile trobadorico di scrivere testi “pregando” che giungessero alle persone interessate. Curioso notare che questo aspetto, che ancora non conoscevo, mi spinse ad apprezzare gli stilnovisti, specie Dante, quali eredi e innovatori delle liriche dei Trovatori. Sempre interessante vedere come alla fine torni anche l’aspetto musicale del verso. Ora, che sono meno timido, è comunque rimasta la volontà della dedica, non tanto o non solo come indirizzo, ma pure e soprattutto come “omaggio”.
La copertina del vostro libro ritrae uno scorcio di Venezia, perchè Venezia?
A.L: Venezia è lo sfondo non tanto simbolico quanto concreto e funzionale di tutta la narrazione in versi. È il luogo caro e ricorrente nella poetica di Davide; è il punto di approdo della mia sperimentazione sulla parola, il culmine del mio smarrimento. Ho raggiunto Venezia alla fine dello scorso settembre, reduce da un tour estivo di poesia performativa (“Percorso verso la rinascita”) che portava in scena una serie di temi tabù: l’omicidio, il suicidio, la dipendenza, la patologia, il sesso, il tradimento, la masturbazione. Affrontare con costanza un pubblico non abituato – nonostante gli ottimi risultati, ben oltre le aspettative – aveva il potere immenso di svuotarmi, di ridurmi senza forze dall’ansia, che in qualche modo dovevo anestetizzare. Poco prima dell’ultima data ho ricevuto la notizia dell’inizio dei corsi per masterizzandi al Conservatorio di Salerno: sarei dovuta partire. La partenza definitiva, poi, è slittata, ma questa è un’altra storia; attualmente mi trovo ancora in bilico e a volte, non lo nego, combattuta. Ma insomma, a Venezia sono arrivata in uno stato di profonda confusione e fissarla, ordinarla attraverso la scrittura, sarebbe stato utile, anziché sprofondare. Una sera, mentre mi trovavo in hotel, mi venne in mente la parola “attrito”. Non saprei dire in associazione a cosa; e quando l’indomani, durante il pranzo a casa di Davide, si tornò aparlare del titolo adatto al nostro lavoro, capii che la genesi improvvisa di quella parola aveva in realtà un tracciato lineare. Con Davide decidemmo di comune accordo di far terminare le nostre rispettive sezioni del libro con una poesia che avesse lo stesso titolo. “L’attrito”, appunto. La mia è nata in treno, durante il viaggio di ritorno, in un tempo molto breve: le immagini che avevo appuntato in quei giorni si incasellavano in maniera naturale e confusa, com’ero io stessa in quel momento della mia vita. Una piccola curiosità, gli ultimi due versi sono rubati. Dalla scritta sul muro di un’abitazione, mentre camminavo nel ghetto ebraico. Senza case per tutti Venezia muore, o qualcosa del genere.
D.DC: Altra domanda semplice la cui risposta non è immediata. Potrei rispondere scherzando che la foto l’ho scattata io così da non pagare altri o chiedere il diritto d’autore ad altri. Vero è che all’inizio avevo pensato ad un’altra immagine, però poi Alessia mi ha suggerito questo scatto fatto quando le ho mostrato Venezia. Solo ora potrei dire che è più significativo di quanto pensassi… un ponte, che unisce due sponde: esso è la poesia, da un lato ci sono io, dall’altro Alessia. Venezia è un luogo dove il passato prestigioso si scontra con un presente incerto, dove appunto c’è questo attrito! E come non pensare a questo ponte in particolare, il ponte dei sospiri, attraversato dai condannati alla prigione (anche a vita) durante la Serenissima. C’è gente che vi passa davanti pensando “che nome romantico…” quando di sentimentale magari c’è ben poco. Certo, non nego che magari siano stati imprigionati innocenti che in un attimo perdevano tutto. Anche qui però, che contrasto, tra l’immagine di un ponte artisticamente bello e la storia che c’è dietro.
Avete qualche progetto poetico da tirare fuori dal cassetto?
A.L: Ho in lavorazione diverse raccolte, forse sei o sette. Di tanto in tanto ci torno sopra, per sistemare. Mi preme però terminare “Napoli diplomatica, o la moglie giovane” il racconto in versi di Linù, una giovane napoletana, della sua iniziazione alla sessualità, al conflitto, al dolore, e del rapporto complicatissimo che avrà con essi nel corso della sua esistenza.
D.DC: Dal dicembre 2008 ho composto, sommando le canzoni mute e le poesie, circa 250 liriche. Quindi certamente mi piacerebbe poter tirare fuori dal cassetto qualche altro testo per pubblicarlo, sebbene non sia facile per la mia cattiva autovalutazione (come detto in precedenza). Però prima di una nuova raccolta poetica, mi piacerebbe ultimare un saggio musicale (di cui non dirò niente perché meglio non dire gatto se non ce l’hai nel sacco) e riuscire a pubblicare anche qualche testo di tematica storica.
Bianca Folino