Era il 1989 o il 1990, il mio inizio nel mondo della fotografia era appena cominciato. Nei miei girovagare senza metà, un po’ come Pavese sulle colline intorno a Santo Stefano Belbo, io portavo il mio essere nella Milano di un tempo: Brera, via Madonnina, piazza Mercanti e vicoli vari. Giravo sempre con la macchina fotografica al collo, quasi fosse un lasciapassare, uno strumento attraverso il quale riuscivo a fermare attimi di una realtà, che dopo lo scatto sarebbe scomparsa per sempre. Quel sabato pomeriggio faceva un po’ caldo. Alcuni turisti stavano passeggiando tra le viuzze di Brera e io, come spesso mi accadeva, cercavo uno spunto per fare foto.
Mi fermai davanti a una vetrina. Al suo interno, esposti in maniera ordinata, c’erano delle opere che attirarono la mia attenzione. Avevo già visto quella “mano”, quei colori… quelle sagome che incastrandosi senza soluzione di continuità formavano volti, corpi… situazioni. Nella penombra dello studio interno, un uomo, sulla sessantina, barba grigia e aspetto elegante, stava sfogliando una rivista seduto dietro una pregevole scrivania in legno. L’unica luce che lo illuminava era quella di una vecchia lampada da tavolo. Entrai.
«Buongiorno, sono Pedrazzi… mi occupo di fotografia»
Affermare che ero un fotoreporter ancora m’imbarazzava, non mi sentivo all’altezza.
L’uomo alzò lo sguardo e sorrise.
«In che senso si occupa di fotografia?»
«Sono un freelance e lavoro per Farabola»
«Ah! Si accomodi»
«Maestro, posso farle qualche foto?»
«Con piacere»
Si sistemò la giacca e chiuse la rivista che stava sfogliando.
Feci qualche scatto… c’era poca luce ma non volevo usare il flash, avrebbe rovinato quell’atmosfera che lo avvolgeva. Poi, mi sedetti di fronte a lui e cominciammo a chiacchierare. Mi raccontò un po’ della sua vita artistica, dei tempi di Rivarossi, quando creò le grafiche per le scatole dei trenini… fino alle opere per il Giappone. Dopo una mezz’ora si alzò.
«Venga con me, le faccio vedere il mio studio»
Scendemmo una rampa di scale e mi portò di sotto, dove c’erano i suoi torchi serigrafici, dove nascevano le sue opere. Quando uscii da lì mi accesi un Toscanello e mi guardai attorno… poi mi girai verso la vetrina e vidi che Amleto Dalla Costa aveva ripreso a sfogliare la rivista di prima. Tornai verso casa e lasciai il rullino delle diapositive al laboratorio.
Fabio Pedrazzi