Loop temporali nel Giorno della Marmotta

Danny Rubin ha sessant’anni e poche persone sanno chi sia. Ha fatto solo una cosa nella vita, davvero degna di nota: scrivere una delle migliori sceneggiature della storia del cinema. Dal soggetto perfetto ai dialoghi irresistibili, dalle situazioni più dinamiche ai colpi di scena più divertenti, la trama della sua storia è puro cinema.
Il film? Stiamo naturalmente parlando di The Groundhog Day – Ricomincio da capo. Certo gran parte del merito va a Harold Ramis che dapprima ha saputo cogliere magistralmente l’efficacia del soggetto presentato e successivamente ha tradotto in azione ed immagini, in frasi e scene, il copione di Rubin, come solo il compianto regista sapeva fare dietro la macchina da presa.
Ora, il discorso si fa ancora più interessante e senza dubbio geniale quando veniamo a scoprire che in Pennsyilvania si celebra davvero il Giorno della Marmotta e che una città di nome Punxsutawney esiste sul serio sulle mappe degli USA.
Da quelle parti, per celebrare l’imminente fine del gelo e il relativo risvegliarsi della natura, il 2 Febbraio tutti gli abitanti si riversano in piazza e attendono che da un buco posto su di una quercia secolare – sotto lo sguardo vigile dei decani di paese – si risvegli dal letargo e sbuchi una marmotta.
E’ – tutto – vero.

Il vero Giorno della Marmotta a Punxsutawney, PA.

Sulla base di questo fatto larger than imagination , Rubin ricama una storia che invece è tanto fantasiosa e senza spiegazioni da risultare sublime.
E’ importantissimo, potremo dire cruciale, per l’economia comica del film, che tutto ciò che succede non abbia un senso apparente, non sia frutto di un fattore scatenante, di una benché minima logica.
Perché in fondo, come sempre, nelle storie migliori si parla d’amore, e con l’amore le spiegazioni ci fanno a cazzotti: un po’ come mettere i calzini blu con i pantaloni neri.
Il ritmo, dicevamo, è il tempo. Il tempo è alla base di tutto; niente fantascienza, però. Niente fisica quantistica, nemmeno paradossi. E’ Just Comedy, ed è una bomba proprio per questo.
Groundhog Day, per farla brevissima, parla di un giornalista (Bill Murray in stato di grazia) che fondamentalmente è un cinico stronzo disilluso ed egoista. Inviato ad assistere al Giorno della Marmotta, rimane bloccato nella cittadina a causa di una tormenta di neve. Da quel momento, rivivrà lo stesso giorno in un loop temporale di cui solo lui è consapevole, fino al momento in cui si innamorerà, ritroverà fiducia ed entusiasmo nel mondo e nel prossimo e forse capirà che essere un misogino menefreghista non è il massimo della vita.
E così, grazie alla sua maturazione emotiva – o forse per puro caso – quando le rose fioriscono nel suo cuore e in quello dell’altrettanto formidabile Andy McDowell (che era effettivamente al top nel ’94), il loop si interrompe e la vita riprende il suo regolare, bellissimo, ciclo caduceo e inesorabile verso il futuro.
Maledizioni? Zingare? Magie? Niente. Come detto, la forza di Ricomincio da Capo (ennesimo infelice titolo italiano) sta proprio lì, nella comicità del tempo, nella dinamica casuale (e causale) di un uomo che ogni giorno rivive lo stesso giorno e lo affronta nei modi più disparati – e disperati – fino a sperimentare una serie di irresistibili suicidi; indubbiamente il punto più alto del film.

Bill Murray riflette insieme alla marmotta.

E pensare che Ramis e Murray, per ragioni ancora poco chiare, hanno litigato a morte durante le riprese, tanto che la fraterna amicizia dei due Ghostbusters fu bruscamente interrotta fino a quando, vent’anni dopo, non si ricongiunsero durante la malattia del mai troppo amato e stimato Harold.
Ma chiudiamo subito questa parentesi, che non è il caso di intristirsi mentre si ragiona di una delle più brillanti commedie mai realizzate. Non diamo spazio alle lacrime e al lato oscuro di un film – e di due personaggi – al quale proprio non è possibile riuscire ad affibbiare alcunché di negativo.
Maschere immortali e generazionali; grazie per sempre.

Ecco, quasi stavamo per cadere di nuovo nel tranello: stavamo per dimenticarci, anche noi come Hollywood, di Danny Rubin! Ma insomma, questo articolo intende osannarlo e noi subito a parlare d’altro, a divagare.
Certo, non che Danny Rubin abbia fatto molto per far parlare di sé; no, non nel senso che è un tipo schivo: non ha proprio scritto altro. Due orrende sceneggiature per due dimenticabili action thriller primi duemila che non contano molto, e l’unico squillo arriva proprio nel 2019, venticinque anni dopo, in una sorta di grottesco paradosso autocitazionista, in cui vediamo il buon Rubin rifare – stavolta versione musical – il suo Giorno della Marmotta.
Intendiamoci bene, è sempre stato quello il suo sogno: Groundhog Day era nato per essere un musical e solo in un secondo momento fu scelto di farne una commedia.
Musicato, non musicato, parlato, recitato: Groundhog Day è un lucidissimo, brillantissimo testo, frutto di un colpo di genio, forse, o di un colpo di fortuna (per non dir di peggio) o di quel bagliore che investe ciascuno di noi una volta sola nella vita e bisogna saperlo cogliere, un po’ come le scelte che compie il protagonista del film, secondo le quali si può rimanere intrappolati nella propria ripetitiva esistenza o riuscire a progredire, cambiando stessi, per andare inesorabilmente avanti.

Uno dei tantissimi e strepitosi modi di porre fine al “loop”.

La filosofia di Groundhog Day – e forse quella di Rubin – sta tutta lì: le scelte che condizionano il loop temporale della nostra esistenza.
La noia, l’aridità di un trascorso futile e meschino, ci rendono prigionieri involontari di una gabbia fatta di paure e rinunce, di stupidi paraocchi e posticci pregiudizi.
L’alternativa? Buttarsi, letteralmente o figurativamente. Ma mai rinunciare, poiché abbiamo visto che nemmeno la morte può liberarci dalla catena del rimpianto.
La visione di Rubin quindi risulta duplice e sorprendentemente profonda: al primo livello di lettura c’è la commedia dell’arte, il gusto dell’assurdo e il buon sentimento d’amore che spezza l’impossibile e fa tornare la vita alla sua ritrovata normalità. Ed è anche tutto molto americano, non lo mettiamo certo in dubbio.
Ad un secondo livello di lettura, scalfendo la superficie sotto al carismatico faccione di Bill Murray scopriamo l’orologio della mezza età, la necessità atavica di evolvere, per uscire una volta per tutte dal giogo della mediocrità a cui non è vero che siamo eternamente condannati.

In definitiva, cosa ci lascia Danny Rubin con il suo unicum? Una dimostrazione di come sia fondamentale tentare, almeno una volta nella vita, e fare ciò per cui siamo destinati.
E che anche una persona apparentemente normale possa celare nel profondo del suo animo una perla di vivida intelligenza, di assoluto valore, da condividere col mondo.
Fosse mai che il tuo sogno, quasi per caso, non arrivi un giorno sulla scrivania di Harold Ramis.

Michele Simonetti