Ode a Blade Runner: quarant’anni di sogni elettrici

28 Giugno 1982. Quarant’anni dall’uscita nelle sale cinematografiche di un capolavoro – forse il capolavoro – del cinema: Blade Runner. Il regista Ridley Scott trasformò in immagini senza tempo le suggestioni che si palesarono nella sua mente in seguito alla lettura del romanzo di Philip K. Dick “Do Androids Dream of Electric Sheep?” e ciò scaturì un nuovo inizio per l’ottava arte, sia in termini di progresso tecnico che in peculiari derivazioni filosofiche ed esistenziali. Gli anni Ottanta del Novecento sussurravano all’orecchio dell’uomo un imminente arrivo del futuro, che di lì a breve sarebbe diventato il presente; una considerazione del genere generava nella mente collettiva un senso di incertezza e turbamento proprio di chi si spinge verso un confine ignoto e al contempo ineluttabile. Blade Runner si inserisce in questo contesto come una sorta di visionaria e lucidissima guida spirituale per affrontare il domani.
Blade Runner non è fantascienza: è una previsione.

La celebre atmosfera urbana di Blade Runner

Non sinistra o oscura come appare dalle sconvolgenti scenografie a cura di Linda De Scenna (artista visionaria a dir poco straordinaria) e dal senso piovoso e notturno che ne permea la visione, assolutamente no. Scott inserisce tali elementi esclusivamente per l’attitudine noir della trama di base, una sorta di pretesto letterario atto a mantenere viva l’attenzione dello spettatore a cui invece viene iniettata una dose di vivida divinazione dell’avvenire, in modo da vaccinarlo al prossimo arrivo dell’epidemia più gravosa: l’alienazione.
Il futuro che ci racconta il regista britannico è l’esasperazione dei limiti sociali di una morale che ben presto verrà scandita dall’orologio dell’emarginazione, chiusi in se stessi e inesorabilmente soli in una metropoli di scala globale in cui si vaga nottetempo alla ricerca del niente.

L’Androide Nexus 6 interpetato da Rutger Hauer, consapevole di non avere tempo, alla ricerca di umanità

Sebbene nel film non appaiano telefoni cellulari, internet o social network di sorta e nonostante permangano gli elementi chiave della fantascienza classica – un esempio su tutti l’uso suggestivo delle macchine volanti – Blade Runner scava a fondo nell’etica comune e coinvolge ogni prospettiva dell’intimità, mettendo a nudo le situazioni più critiche e imbarazzanti che si celano laddove giace il peggio di noi: razzismo, classismo, indifferenza, mancanza di rispetto verso se stessi e gli altri, distaccamento dalle emozioni.
In definitiva, Blade Runner pone la grande questione di quanto di umano rimarrà in noi una volta che arriveremo al punto di non ritorno e la risposta non sarà affatto soddisfacente, non solo perché in termini filmici non ci viene data, ma soprattutto perché l’unica certezza che avremo alla fine della visione sarà l’immagine di un cyborg che, disperato per la sua condizione, riesce a sperimentare una maggiore empatia in confronto ad un essere umano.
Il desiderio ardente di vita, di amore, di passione, portano la classe di androidi Nexus 6 all’autodistruzione, attraverso un percorso accelerato verso la fine annunciata.
Una metafora della vita vissuta con maggiore intensità rispetto a quanto facciano le persone in carne e ossa (la loro parentesi di noia tra un sonno e l’altro) vagando senza meta in una sorta di limbo atto alla mera sopravvivenza, scarnificati e lasciati spogli di ogni caratteristica poetica, impietosamente fotografati tra le grandi strade di un sottosuolo urbano che offre solo e soltanto polvere e buio.

Deckard, interpretato da Harrison Ford, mentre dà la caccia agli androidi si consuma dal dubbio sulla propria umanità

Tale interrogativo trasporta i fatti esposti in una dimensione ontologica che sperimenta il tessuto dell’innovazione tecnologica attraverso l’onirica soglia: domani saremo uomini o macchine?

Michele Simonetti