Patroni e patronati a Ibla e a Ragusa

Secondo il Diritto canonico, il Patrono è quel Santo che una città elegge per antica tradizione o per propria scelta quale speciale protettore e intercessore. E il Santo Patrono ha il diritto di patronato sulla chiesa e sulla città. Anche la mia città ha un patrono, anzi, in verità, forse. Sì, perché Ragusa è una, ma i patroni sono due: uno, il santo cavaliere, San Giorgio, a Ibla, l’altro, l’ultimo dei profeti e il primo dei testimoni di Cristo, San Giovanni Battista, a Ragusa. Ecco perché si dice: Italia una, Ragusa due. Perché a Ragusa e a Ibla il tempo si conta usando due locuzioni: prima del terremoto e dopo il terremoto. La storia di una città è fatta di donne e uomini, certamente, ma anche di cambiamenti fortuiti, casuali, eventi e avvenimenti da cui uomini e donne sono travolti e trascinati, ma dai quali possono prendere quel che di buono rimane.

L’undici gennaio del 1693 un sisma devastante sconvolse non solo la vita di migliaia di persone, ma anche l’orografia stessa del luogo. Della città che aveva visto gli insediamenti dei bizantini e prima ancora dei siculi e dei greci, rimasero solo tracce, mura sgretolate di un castello, portali di chiese miracolosamente rimasti in piedi, fregi di balconi e più di tutto il desiderio di rinascita, la spinta verso un modo nuovo di affrontare la vita, il desiderio di dimenticare in fretta. Gli abitanti, quelli superstiti, iniziarono da subito una ricostruzione difficile e caparbia, con una capacità di ripresa che segue sempre alle grandi catastrofi e che è racchiusa nel motto dello stemma della mia città: Crevit Ragusia Hyblae ruinis.

Una parte di loro, che viveva chiusa all’interno delle mura della città medievale ormai ridotto ad un cumulo di macerie, decise di rimanere a Ibla, nella terra dei padri, ricostruendo su quel che era rimasto, mentre l’altra, che aveva trovato sistemazione nel quartiere dei Cusanzari, i Cosentini, cercò la spinta verso la parte alta dell’altopiano, dove nulla era costruito, partendo dal quartiere di San Giovanni e dalla piazza degli Archi, in cui confluiscono ben otto strade, e che divenne lo snodo da cui si dipartirono le direttrici per il nuovo mondo. Ma ad Ibla prima ancora del terremoto, le due anime, così complesse, convivevano sotto il patronato di due santi, san Giorgio, all’interno del castello, e san Giovanni, fuori dalle sua mura. Da qui prende spunto la bella e puntigliosa ricerca di Andrea Ottaviano, dottore in chimica, Direttore Emerito del Dipartimento Arpa (Agenzia regionale protezione ambientale) Sicilia, appassionato e colto studioso di storia patria, che osservando al microscopio, proprio il caso di dirlo, i fascicoli, gli appunti, le lettere che sono in suo possesso in una raccolta che credo non abbia eguali non solo a Ibla, ma anche in provincia, ha ricostruito, passo dopo passo, la rivalità fra i due Santi, o meglio fra i devoti dei due Santi, poiché credo proprio che loro, i Santi, rivali non sono mai stati.

Il suo libro, auto-pubblicato, “San Giorgio a Ragusa, mille anni di storia”, è uno scrigno prezioso di notizie e documenti, tracce importanti del passato di una città che ha sempre vissuto grandi contrasti nei quali cambi di regime, ricostruzioni, lotte di potere rappresentano solo una minima parte della mescolanza tra potere politico e religioso, economico e finanziario e dove la rivalità tra i due santi nascondeva in realtà interessi strategici per la vita stessa della città. Perché, come afferma l’Autore, dietro ogni patronato ci sono chiese, preti, faccendieri, rendite, quindi soldi, tanti, e ricchezze, tante. Mille anni di storia che passano sotto la lente dello studioso, mille anni che attraversano le anime di due città, Ibla e Ragusa, unite da leggi e decreti, ma profondamente divise da sempre, l’una creatura dell’altra, l’una nobile e antica, l’altra borghese e nuova. Questo il paradosso, che lo studioso esamina con una imparzialità che mi ha lasciato stupita, poiché lo conosco da anni e so bene della sua devozione al Santo Cavaliere, messa da parte per amore della scienza e per rispetto della oggettività dei fatti che racconta.

Ma forse proprio la sua formazione scientifica gli ha permesso di esaminare con distacco il materiale che aveva a disposizione, vecchie carte che parlano al cuore di chi le sa leggere, documenti sconosciuti ai più che lui con certosina pazienza ha ricostruito, tradotto, resi leggibili. Lo sguardo attento dell’Autore, che pesca a piene mani nella biblioteca Ottaviano Piccitto grazie anche all’aiuto del fratello Giorgio, ci porta in un mondo fatto di diatribe, aneddoti curiosi, profondo amore per un territorio dove il braccio secolare della Chiesa ha dettato per secoli le sue leggi, conferendo o togliendo non solo patronati, ma anche rendite ecclesiali notevoli. Un’analisi lucida e accorta di secoli di storia, divisi da un avvenimento catastrofico che in realtà servì solo ad accelerare un cambiamento in nuce già da tempo, una frattura insanabile fra due modi diversi di pensare, che trovarono la loro icona e la loro bandiera nella devozione ai due patroni, ora condivisa, ora osteggiata dal clero e dai notabili.

I mille anni di presenza del Santo cavaliere da una parte, già dai tempi di Onorio II nel 1217, dall’altra parte la necessità di accorpare rendite ecclesiali al nuovo mondo che stava nascendo, a quella borghesia ricca che dopo il terremoto rese Ragusa non soltanto una delle migliori realtà agricole della Sicilia, ma anche una straordinaria manifestazione del barocco, in una sorta di gara tra notabili a creare il palazzo più bello, più ricco, più grande. Per questo l’analisi dell’Autore, che esamina una serie di documenti e di riscontri veramente notevole, da quelli che certificano il patronato di san Giorgio prima del terremoto, a quelli che circa quattro secoli dopo indicano come patrono di Ragusa superiore San Giovanni, merita una lettura e una riflessione. Di questa ricerca rimangono immagini bellissimi che nei tredici capitoli del testo accompagnano il lettore e il fascino di un mondo fatto di avvenimenti lontani che l’Autore ha reso vivi e presenti a chi legge, come se vescovi e preti, viceré e conti, sindaci e consiglieri parlassero ancora a noi con il linguaggio del tempo, con aneddoti, ritornelli, proverbi, un mondo dove la ricchezza e la bellezza di paramenti sacri e reliquiari indicava la potenza di chi li indossava e dove le processioni erano motivo di liti fra devoti. Un mondo lontano che è stato reso vicinissimo a noi perché senza radici non ci sono ali, o, come scrive Italo Calvino che lo studioso cita all’inizio della sua ricerca, “la memoria conta veramente, solo se si tiene insieme l’impronta del passato e il progetto del futuro”.

Adriana Antoci