Negli ultimi mesi, tra gli appassionati di musica, uno dei principali argomenti di discussione è quello riguardante la vendita dei diritti derivanti dalle proprie canzoni da parte di numerose rockstar .
Uno dei primi esempi eclatanti è stato Bob Dylan che ha ceduto alla Universal Music Publishing Group i diritti di pubblicazione di oltre 600 canzoni per 300 milioni e mezzo di dollari.
La cifra, che nel momento in cui è stata diffusa sembrava esorbitante, è stata ampiamente offuscata dalla notizia che Bruce Springsteen ha concluso un accordo con la Sony per la cessione dei diritti di pubblicazione e dei master dei dischi alla Sony per una cifra totale di 500 milioni di dollari. A parte questi due esempi nel mezzo ci sono decine di altre rockstar che hanno stipulato accordi simili non con etichette discografiche ma con nuovi fondi di investimento che si propongono di redistribuire ai propri sottoscrittori parte degli utili derivanti dallo sfruttamento dei diritti relativi a canzoni e master precedentemente acquistati.
Leader in questo settore è il fondo inglese Hipgnosis Songs Fund, fondato nel 2018 da Merck Mercuriadis ex manager di artisti come Elton John, Beyoncé, Morrissey, Guns N’ Roses e Iron Maiden, insieme a Nile Rodgers, storico leader degli Chic. Di recente la società ha acquistato anche i diritti dell’ex chitarrista e cantante dei Fleetwood Mac, Lindsay Buckingham, e del produttore Jimmy Iovine mentre risulta essere già in possesso di buona parte del catalogo di nomi come Shakira, Red Hot Chili Pepper, Blondie e Neil Young.
Altri investitori come l’americana Primary Wave hanno in portafoglio, tra gli altri, artisti come Nirvan, Hall & Oates,m Earth, Wind and Fire e Bob Marley (il cui catalogo è stata valutato 50 milioni di dollari) oppure la Concord Music Group che vanta la gestione economica di artisti come Calvin Harris, Imagine Dragon o Taylor Swift.
A seguito di questi eventi, tra i fans dei singoli musicisti è nato una sorta di dibattito volto a capire quali siano le ragioni per cui si è arrivati a tutto questo. Poco credibile la tesi secondo la quale i cosiddetti “raggiunti limiti di età” abbiano indotto le rockstar a sottoscrivere questi accordi. David Crosby sembra abbia dichiarato che la cessione dei diritti per lui sia stata sorta di benedizione soprattutto dopo questi ultimi due anni senza poter lavorare e lo stesso Neil Young ha ricordato che alla sua età è un modo per mettere al sicuro l’eredità ai suoi familiari. Rimane il fatto che una parte considerevole degli artisti che hanno aderito a questi accordi è ben lontano dalla pensione o dall’interruzione della propria attività.
Per certi versi più credibile la versione che attribuisce alla circostanza che il Presidente americano Biden stia approntando una riforma fiscale destinata, per certi importi, a portare l’aliquota della tassazione dei redditi dal 20% al 37%. Ma ovviamente ci sono moltissimi ostacoli da superare prima di aver la certezza di poter arrivare ad un tale repentino aumento della tassazione in Usa.
Di sicuro c’è invece la poca chiarezza in merito al rendimento economico dei diritti derivanti dalle composizioni musicali. Se da un lato sembra che le rockstar stiano attuando una specie di campagna di monetizzazione immaginando che nel futuro più o meno immediato i redditi potrebbero ridursi dall’altro non si spiega come società come la Universal o la Sony decidano di investire milioni di dollari per acquistare qualcosa di dubbia redditività nei prossimi anni.
Una recente ricerca a cura del MusicBusiness Worldwide ha confermato che nel 2021 oltre il 73% dei profitti derivanti dal mercato musicale in Usa è rappresentato da “musica di catalogo” (e cioè pubblicati da oltre 18 mesi) piuttosto che da musica pubblicato in tempi più recenti e la lista delle canzoni più scaricate a pagamento da ITunes sia di artisti attivi nel secolo scorso come Creedence Clearwater Revival o The Police. Sempre secondo dati relativi alle vendite dell’ scorso anno la BMG ha aumentato del 49% i guadagni delle streaming derivanti da dischi di catalogo mentre la Universal ha registrato un aumento del 57% nello stesso settore.
Questi dati a dir la verità sono poco confortanti perché rappresentano un’ulteriore difficoltà per gli artisti della nuova generazione come ci ricorda il dj Luca De Gennaro sulla sua pagina Facebook “Oggi la concorrenza di chiunque faccia nuova musica pop è l’intera storia della musica pop, perchè tutto è raggiungibile immediatamente con lo stesso metodo e la stessa facilità, e la storia della musica è talmente affascinante che conquista anche il pubblico giovane (basta vedere i loghi delle band storiche sulle magliette dei teenager). Dunque, chi oggi fa musica ha in più dei suoi predecessori la difficoltà di doversi misurare con la storia, di essere sullo stesso scaffale di capolavori che hanno sconfitto il tempo e sono diventati eterni. Non è vero che la musica di oggi è “usa e getta”. Lo era anche gran parte di quella di ieri. Solo che oggi è molto più difficile lasciare il segno. C’è da augurarsi che chi fa musica oggi se ne renda conto e punti all’eccellenza.”
Rimane in ogni caso molto difficile fare previsioni sul futuro economico del mondo musicale che ci appare sempre più dominato da investitori di cui non è ovviamente possibile valutare le reazioni nel caso i diritti dovessero iniziare a divenire poco remunerativi. Così come sarebbe stato inimmaginabile trent’anni fa avere la possibilità di scegliere cosa ascoltare totalmente gratis all’interno di un catalogo delle dimensioni di quello ad esempio di Spotify è poco credibile che sia la finanza a sostenere gli artisti. In un periodo in cui l’intero arcipelago della musica è invaso dall’incertezza e Spotify stesso sta ampliando gli investimenti nei podcast e negli audiolibri per diversificare gli investimenti ed essere pronti ad affrontare situazioni di difficoltà nel settore musica, in tutta sincerità più che una facilitazione per gli eredi questi accordi ci sembra mascherino il timore da parte delle rockstar per un futuro sempre meno redditizio.
Carlo Pulici