Romanticismo inglese: Percy Bysshe Shelley

Il secondo poeta del Romanticismo inglese è P. B. Shelley, nato il 4 agosto 1792, all’interno di una famiglia dell’aristocrazia rurale dell’Inghilterra meridionale (Contea del Sussex), amico di Lord Byron e Keats, suoi contemporanei. Non tento nemmeno di riassumere la sua vita, essa stessa un romanzo dentro al romanzo. Dico solo che il poeta fu favorevole al libero amore, anche all’interno della vita di coppia. Nell’agosto 1811 sposa Harriet Westbrook, dalla quale avrà due figli, ma subito dopo il matrimonio invita l’amico Hogg a condividere con lui la casa e le gioie della moglie.                                                                                          

A partire dal 1812 soffre di attacchi nervosi che, nonostante vengano curati con massicce dosi di laudano, ben presto si trasformeranno in vere allucinazioni. Anche il matrimonio va in crisi, perché lui si innamora di Mary Godwin, la figlia del filosofo William Godwin.

I due si incontrano segretamente e poi, nel giugno 1814, attraversata tutta la Francia, fuggono in Svizzera, portando con loro la sorella di Mary, Claire, che si legherà a Lord Byron, dal quale avrà una figlia. Dopo sei settimane, i tre rimangono senza soldi e tornano in Inghilterra dove il poeta, da questo momento in poi, dovrà sempre nascondersi per sfuggire ai creditori.                                                                           

Nel 1815 Mary partorisce una bambina, che nasce prematura e morirà di lì a poco; nell’estate successiva tornano in Svizzera dove la sorella di Mary, Claire, favorisce un incontro con Lord Byron. Le due famiglie risiedono in due ville molto vicine sul lago di Ginevra e i due poeti trascorreranno molte ore insieme scrivendo, andando in barca e parlando fino a notte fonda.

“Ma – ricorderà Mary negli anni successivi – fu un’estate piovosa e poco clemente” e la pioggia incessante ci costrinse spesso in casa per giornate intere.”                                                                                                              E allora si sedevano davanti al fuoco del camino di villa di Byron e si divertivano leggendo storie tedesche di fantasmi. Fu così che, un giorno, Byron propose un gioco: ognuno avrebbe dovuto scrivere una storia di fantasmi e di paura; qualche tempo dopo, nel dormiveglia, Mary ebbe l’idea migliore, da quella idea nacque il suo famoso romanzo Frankenstein. 

Ho detto che la loro vita fu un romanzo, favorito dalla reciproca disponibilità dei due coniugi al libero amore. Anche Mary, che aveva sposato nel 1816, godrà dei favori dell’amico Hogg, al quale si rivolge quando la depressione si fa maggiore, anche se per lei rimarrà sempre prioritario l’amore per Percy, che da parte sua non si farà mancare nuove amicizie. Il Poeta, infatti, trascorre molto più tempo con Jane Williams che non con la moglie già debilitata. 

La maggior parte delle poesie d’amore sono rivolte a Jane e non a Mary.  Dopo una serie di alti e bassi letterari e personali, nel 1818, in uno stato di salute pessimo, il poeta, con il suo seguito di familiari si sposta in Italia dove, nel giro di quattro anni, soggiorna nelle principali città. In Italia Percy e Mary perderanno due dei tre figli: prima Claire Everina, morta a Venezia per dissenteria, poi William morto a Roma per malaria; sopravvisse solo l’ultimo figlio, nato a Firenze. Dentro questo romanzo, non potevano mancare due suicidi, quello di Fanny, sorella di Mary, che aveva trangugiato un’intera bottiglietta di laudano, e quello di Harriet, la prima moglie del poeta, trovata morta, affogata in un laghetto di Hyde Park a Londra, secondo alcuni in avanzato stato di gravidanza. Da ultimo, il naufragio della barca di Shelley nel golfo dei poeti, il golfo di Lerici, annegato con due compagni di avventura l’8 luglio 1822, a poco meno di un mese dal suo 30esimo compleanno.  I tre corpi furono ritrovati dieci giorni dopo nel mare di Viareggio e il corpo del poeta venne cremato sulla spiaggia. Tra le sue molte opere, non possiamo dimenticare il Prometeo liberato, un dramma lirico in versi, ispirato all’omonima tragedia (purtroppo perduta) di Eschilo. In origine il dramma era in tre atti, ma, qualche mese dopo la sua redazione, il poeta vi aggiunse il quarto atto, celebrativo della vittoria di Prometeo.

Di Shelley propongo due liriche molto semplici e tra le sue più famose. La prima “Su una violetta morta”, è conosciuta in Italia per essere diventata una romanza nella musica da salotto di Ottorino Respighi e rende bene il concetto di ciò che si debba intendere per poesia romantica:

 E’ vanito l’odor di questo fiore,

 che, come il bacio tuo, tenero ardente

 respirava su me.

 Anche di questo fior fuggì il colore,

 che rilucea deliziosamente

 di te, solo di te.

 Inerte, vana forma ella riposa

 sul mio povero cuor, che non oblia,

 povero stanco cuor;

 immobile, di gel, silenziosa

 ella irride così l’anima mia,

 l’anima calda ancor.

 In vano, in vano io piango a lei d’accanto;

 e sospirando in van su lei mi chino:

oh! tutto in lei finì!

Il suo destino è muto, senza pianto.

Il suo destino è muto.

Oh! il mio destino

dovrebbe esser così.

Notate nella seconda strofa, i sostantivi cuore e anima sono volutamente ripetuti due volte, per sottolineare il dolore per un amore tristemente finito. La morte del fiore, l’appassimento di questa violetta che prima perde il profumo e poi perde anche il colore, sono chiaramente metafora di un amore sfiorito, senza più profumo.

Più ricca di contenuti l’altra poesia, dal titolo Filosofia dell’amore, dove l’amore è descritto come un’entità universale, una forza che appartiene alla natura e anima la vita.

Il poeta prende spunto da una riflessione nell’osservare come tutte le cose del creato si uniscano, si mescolino, si fondano. Perché – si domanda il poeta – non può succedere la stessa cosa tra te e me?

 I fonti ai rivi mesconsi;  

 mesconsi i rivi al mare;  

i venti al ciel si uniscono

 con dolce palpitare.

 L’una con l’altra fondonsi

 tutte le cose, che

 nell’universo vivono;

 perché non io con te?

 Vedi: i monti baciano il ciel;

 tra lor s’abbraccian l’onde;

 e ciascun fiore l’anima

 in altro fiore effonde.

 Del sol la terra allietasi;

 bacia la luna il mar:

che valgono questi baci,

 se tu non mi vuoi baciar?

Nelle ultime due strofe la riflessione si fa più pregnante, più fisica. Non è più soltanto un fondersi astratto, un prendere atto di ciò che è fenomenico. Nell’universo vede passione, tenerezza: i monti che baciano il cielo, le onde che rincorrendosi sembrano abbracciarsi l’una con l’altra. I fiori che mediante l’impollinatura si scambiano l’anima ma, soprattutto, la terra che si allieta del calore del sole che la feconda e la pallida luna leopardiana che, nel suo cammino notturno, si china a baciare il mare.

Il poeta avverte un senso di inutilità, quasi una mancanza. In questa gioiosa fecondità dell’universo, nella quale tutti siamo immersi e della quale ogni giorno siamo chiamati a prendere atto – si domanda – a cosa vale tutto questo se tu non mi vuoi baciare? 

Ovvero: se tu non accetti, che io sia per te ciò che il sole è per la terra, la luna per il mare, che senso ha tutto questo se tu non accetti il mio amore?  

Secondo Shelley tutto tende alla dualità, niente è single in natura, almeno nulla che sia vivo è solitario, l’unione (la tendenza ad unirsi…) è la realizzazione della vita stessa.  Sole – terra – luna – mare, uomo -donna.  Siamo tutti parte di un disegno perfetto che coincide con il volere di una forza più grande. Una sorta di calamita: poli opposti e complementari che si attraggono inesorabilmente. Questi versi davvero esprimono tutto il desiderio passionale che esiste in Natura e al quale nessun essere vivente può sottrarsi.

Franco Rizzi