San Paolo, a sciuta

San Paulu, maccia r’addauru,

spina pungenti nun muzzicari a mia,

né mancu la genti

C’è un Paese al centro della Sicilia dove ogni ventinove giugno umano e divino si incontrano, folclore e religione si mescolano, fede e istinto si uniscono. C’è un mondo di colori, a Palazzolo Acreide, il ventinove di giugno. L’oro del grano maturo, appena mietuto, si mescola all’oro del fercolo, il rosso dei papaveri si unisce a quello delle magliette e dei fazzoletti dei devoti, il verde degli steli della spica di san Paulo trova il suo paio nel colore degli stendardi. Tutto è colore, a Palazzolo Acreide, tutto è vita. Nella mia terra le processioni in estate si moltiplicano, diventano rito quasi quotidiano; non c’è paese o città che non onori con fuochi d’artificio, musica di banda e candele il proprio Santo Patrono, anzi, più il paese è piccolo, più numerosi sono i suoi Santi Patroni, in un campanilismo centenario fatto di dispute, di liti, di bolle papali, di patronati veri o presunti.

Ma a sciuta di San Paolo a Palazzolo Acreide è altra cosa, è unica, straordinaria, possente e potente. Bisogna esserci per vedere e poi tornare e tornare ancora, mente il popolo di San Paolo, devoti, turisti, fotografi, curiosi, si muove compatto, tra tavolini di bar che servono granite e brioche, tra le scale che uniscono i quartieri, tra la Chiesa e la piazza, dove le casse di birra sono pronte tra il bar e il Circolo. Bisogna esserci per sentire il profumo delle polpette fritte e della pizza appena sfornata, per gustare le arancine caldissime colore del sole, per bere la birra ghiacciata sulle panchine già bollenti della piazza, mentre il muro compatto delle magliette rosse comincia a muoversi e risale verso la Chiesa e la banda inizia il giro di gala, tra fracasso di tamburi e sparo di mortaretti. Ma tutti, a Palazzolo, sono svegli da ore. Le finestre e i balconi si spalancano ancora prima dell’alba. C’è molto da fare, prima della sciuta: preparare le magliette e i fazzoletti rossi, cucire sulle nzaredde gli ex voto, accendere il forno per cuocere le cuddure, legare insieme i mazzi di lavanda.

Persino i Santoni accanto al Teatro Greco si svegliano presto, allo scoppio dei primi fuochi d’artificio che segnano l’inizio della festa, mentre gli Apostoli, su in cima alla balaustra, controllano con attenzione le file dei mortai pieni di nzaredde pronte ad esplodere all’uscita del Santo. E Lui, immobile e ieratico, ritto sul fercolo, spada levata in alto, catene spezzate ai polsi, osserva con gli occhi neri e penetranti che sanno scrutare fin dentro il cuore di ognuno dei devoti, che, alla spicciolata, arrivano in Chiesa e sistemano sulle lunghe assi portanti del fercolo il fazzoletto con le insegne del Santo. Un privilegio offrire la spalla nuda per portare un carico così pesante lungo le vie strette della città vecchia, un onore chinare la schiena sotto il fercolo, una responsabilità grande bilanciare il peso della Statua e dei due ragazzi in piedi sul fercolo, sotto il sole del mezzogiorno di giugno, il più caldo, il più luminoso. E tutto diventa luce, nel giorno del Santo: gli ottoni della banda brillano, così come le aste degli stendardi e l’oro del pane appena sfornato, portato in Chiesa per la benedizione da un carro trainato da uomini, che si sostituiscono agli animali, perché devono essere loro, gli uomini, a spingere con forza su per le scale la cosa più sacra, la primizia di mesi di benessere. Perché anche per quest’anno le spighe sono state mietute, il raccolto è stato abbondante, adesso il grano riposa nei granai e ci sarà ancora cibo per un altro anno, in attesa di un’altra festa di luce e di colori. E dopo il pane, portato in Chiesa in attesa di essere distribuito, arrivano gli animali, i nati entro l’anno, per la benedizione, promesse e premessa di un anno agricolo ricco di abbondanza.

E dietro, più giù, ragazzi con i serpenti al collo o tra le mani, ricordo della profezia del Santo ciaraulu, il primo dei ciarauli, uomini dotati del potere straordinario di annullare il veleno dei serpenti e il loro morso doloroso. E l’attesa cresce, diventa parossismo, fino a quando, puntuale, un’ora dopo mezzogiorno, il fercolo appare davanti al portone della Chiesa e all’improvviso, esplodono insieme fuochi d’artificio e nzaredde colorate che piovono giù sui devoti dalla balaustra della Chiesa, in un crescendo di rumore, fracasso di tamburi, urla di devoti e musica della banda. Perché a sciuta è tornata ancora una volta, come ogni anno, dato indiscutibile, certezza assoluta in un mondo dove le certezze diventano sempre meno e la incertezza dei giorni a volte attanaglia e assilla. Ma il ventinove di giugno ci sarà sempre, e come ogni anno, accanto alla Chiesa della Nunziata, sotto l’albero del noce, che allarga rami e foglie per accoglierli e ripararli dalla calura del mezzogiorno, ci saranno i bambini nati entro l’anno, la primizia e la continuità della vita, offerti per la benedizione del Santo, nudi, avvolti solo da un nastro rosso e da un fazzoletto troppo grande per loro legato sulle spalle minuscole. Mani che affidano questi fagottini microscopici ad altre mani, di cui si fidano, mentre i portatori si chinano per lo sforzo di reggere il peso statico del fercolo e permettere alle mani di accogliere e donare in assoluta sicurezza.

E Lui, il Santo, sembra sorridere sotto il sole mentre l’urlo dei devoti si alza altissimo, percorre i vicoli e le piazze e raggiunge le strette vie del quartiere dell’ebraida, l’ultimo ripido tratto di strada prima di raggiungere nuovamente il fresco delle navate della Chiesa, che accoglie i portatori sfiniti, ma felici. Bisogna esserci e poi tornare e tornare ancora. Fede e istinto, passione ed entusiasmo, luce e colori, sapori e profumi, umano e divino: è più di una festa, è più di una processione, è la sciuta.

Le foto di questo articolo sono di Salvo Alibrìo

Adriana Antoci