“Sotto al ponte il ratto ha mollato una pisciata e gli animali che ho catturato sono diventati tutti miei animali domestici e sto vivendo fuori dall’erba e lo sgocciolo dal cielo. Va bene mangiare pesce, perché loro non hanno sentimenti. Qualcosa per la strada…“
Something in the way
Nirvana, 1991
Torniamo sulle rive del fiume Whiskah per un’altra esposizione di fragilità assoluta. Una confessione di un unico peccato: essere debole, come tutti noi. Urlare ogni giorno la propria inadeguatezza, scontrarsi con dolore contro il muro della società, di ciò che è divenuto moralmente accettabile ma che di morale o quantomeno di etico non ha niente. Società che ha tra le sue innumerevoli responsabilità la colpa di aver creato un mito, di una leggenda, status che lui di certo non desiderava.
Da vicino a lontano, come il presbite senza occhiali che cerca di mettere a fuoco, ventotto anni dopo la scomparsa di Kurt Cobain, siamo ancora alla ricerca del perché egli sia diventato l’emblema dell’autodistruzione.
La risposta è semplice: Non è vero. Attribuirgli questo epiteto è un falso storico di tutto comodo.
Kurt Donald Cobain è un inno alla vita.
Alla fragilità, certo, ma anche alla forza. E’ un affresco straordinario dell’età più tenera, dolce e potente: la gioventù.
Il messaggio è altrettanto linfatico: prigioniero della sua stessa sorte, la disperazione e la depressione tradotti in musica sono stati un salvavita, un parafulmine generazionale. Kurt ha assorbito il male comune ed ha sintetizzato il disagio di un’età perduta risultando l’ultimo grande “mito” che il mondo abbia rigurgitato.
Nato ad Aberdeen, nello stato di Washington, il 20 Febbraio del 1967, Kurt Cobain ha vissuto un’infanzia da old american family che, come per chiunque, è stata decisamente insostenibile. Una particolare tendenza a somatizzare e una delicatezza più unica che rara hanno reso le prime esperienze di questo gracile ragazzino biondo un vero incubo. L’inferno della società, come tutti, in fondo, percepiamo.
Giunge l’adolescenza ed esplode il talento.
Scopre il punk allo stesso modo con cui scopre la desolazione umana: per strada.
Letteralmente sotto ad un ponte, egli passa notti insonni componendo i primi brani, alla ricerca di una disperata comunicazione gridata contro chi, sordo, non può e non vuole ascoltare. Suona, suona e ancora suona; si esibisce, matura, sorprende.
Nascono i Nirvana: il mondo della musica – e non solo – cambierà per sempre. Parallelamente ad
un successo travolgente arriva l’eroina, la compagna di una vita. L’abisso è appena cominciato. Nessuno è pronto alla fama, figuriamoci un artista vero, un ragazzo giovane, ingenuo, poetico e drammatico. Un mondo nuovo che gli collassa addosso. Il giornalismo becero che lo assalta e lo sfrutta come un perfetto animale da circo per definire il nuovo prodotto mediatico: la generazione X.
Nasce un genere musicale, un filone commerciale, una moda: il grunge.
Che non vuol dire nulla, che non signica nulla, che farà soltanto aprire bocca a tanti idioti.
Sarà una rivoluzione inutile e bellissima; di sicuro quella con la colonna sonora più bella e dannata.
Kurt incassa questi colpi sotto la cintura, sprofonderà tutto sempre più in basso, vicino alla fine prima di aver nemmeno cominciato.
Trova la lucidità soltanto con la chitarra in mano, laddove si trasforma e risorge, illumina ogni
istante con una rabbia feroce mescolata alla perfezione con una trascinante dolcezza: è semplicemente struggente.
Primo capolavoro: Nevermind; secondo capolavoro: In Utero.
Dal 1991 al 1993, in tre anni, il messaggio è chiaro, forte, sconvolgente: composizioni semplici ma superbe entrano di diritto nella storia e non verranno mai più dimenticate.
Frattanto, l’abisso è sempre più profondo e buio: nonostante le nozze con Courtney Love, nonostante i grandi amici, nonostante il supporto delirante dei fan. E’ tutto inutile, sta diventando cieco come il suo amore per la poesia e come la sua fragilità. Non si vede niente nella notte della tossicodipendenza, non solo da eroina. E’ la dipendenza dai sentimenti questo mostro che uccide davvero.
Quando niente ti tocca più perché sei tu stesso che hai toccato troppo da vicino qualcosa che non riesci a sostenere.
Arriva il 1994 e la sua figura, quasi eterea, torna sul palco per un’esibizione testamentaria indimenticabile: unplugged in New York.
Senza distorsione, senza urla, senza casino; scarno, pulito, regolare. Forse quello che avrebbe sempre voluto. Perché dentro quel concerto c’è tutta la forza, la vitalità, l’energia e l’immaginazione di un poeta fantastico, messaggero di un intero sotto-mondo che mai era emerso così tanto come con lui.
Poi, come per ogni spettacolo, è calato il sipario.
Michele Simonetti