“Siamo vecchi, Chevalley, vecchissimi. Sono venticinque secoli almeno che portiamo sulle spalle il peso di magnifiche civiltà eterogenee, tutte venute da fuori, nessuna germogliata da noi stessi, nessuna a cui noi abbiamo dato il la…”. Chi parla è il principe Fabrizio Salina di Lampedusa durante il colloquio con Chevalley, l’inviato piemontese che ospita nella sua amata dimora di Donnafugata. L’incipit di queste righe serve a definire almeno in parte il carattere degli abitanti dell’isola, che fulcro e centro del Mediterraneo, hanno visto succedersi e stratificarsi dominazioni diversissime tra di loro ma che un punto in comune avevano tutte: l’opulenza e la ricchezza di una terra generosa, la facilità di raggiungerla anche navigando sotto costa, la possibilità di creare un mondo nuovo, più ricco e prodigo. E ogni civiltà che è arrivata in Sicilia ha portato con sé modi di pensare, di vivere, di mangiare, perché nulla come il cibo riesce a far ricordare la terra lontana, gli affetti e gli amori lasciati, i profumi e la sensazione di “essere a casa”. Così, su quello che già esisteva si sono aggiunte variazioni di colori e sapori, mescolanze all’apparenza strane e bizzarre, ricette di casa, tradizioni, memorie che fanno della gastronomia e dell’arte culinaria della Sicilia una eccellenza. E come da due idee ne nasce una terza, sicuramente diversa ma a volte anche migliore, così dalle mescolanze di piatti ne sono nati, col tempo, altri che fanno un unicum variegato che diventa non solo folclore, ma anche cultura, nel senso semantico del termine, cioè colere, coltivare.
Perché la pacifica convivenza, così difficile da raggiungere, trova la sua massima espressione a tavola, dove per un momento si dimentica ogni affanno e ogni pensiero, e il riunirsi attorno a cibi invitanti crea quell’unione che molto spesso manca ad altri livelli, unione che fu il sogno di un sovrano illuminato, Federico II, lo stupor mundi che aveva testardamente cercato di ottenere la coesistenza tra ebrei, arabi e cristiani in questa mia terra di Sicilia, coacervo di culture, di modi pensare e di vivere. E i colori si mescolano (chi non ha ammirato almeno una volta la “Vucciria” di Guttuso e chi non ricorda le sensazioni uniche provate nel visitarla dal vivo) e si uniscono nel trionfo della cassata siciliana, dove l’utilizzo dei prodotti dell’isola raggiunge la perfezione. Se c’è qualcosa che unisce le dominazioni e il loro modo di mangiare è forse questo: la ricotta, frutto di una terra dedita alla pastorizia già da prima che Greci e Romani la conquistassero, gli agrumi, cresciuti nei paradeisos degli arabi, la cioccolata, importata dalla dominazione spagnola, la morbidezza della pasta, nata nel silenzio dei conventi delle monache di clausura, il profumo penetrante della cannella che mescola insieme il dolce e una punta di salato, metafora di una vita difficile tra cielo e mare, la cascata di glassa che ricorda il Mongibello, l’Etna, pilastro del cielo, la formidabile fantasia di un cuoco che ne seppe dosare quantità e ingredienti, la tendenza all’esagerazione e all’iperbole così cara ai siciliani che tendono a ingigantire tutto: tutto questo ha creato una meraviglia, delizia prima per gli occhi e poi per il palato.
E se la cassata siciliana è un capolavoro di alta pasticceria, altri modi di unire e mescolare si ritrovano nelle cucine di casa e raccontano di tradizioni, di combinazioni di culture e anche di apparentamenti che a prima vista sembrerebbero bizzarri. Chi potrebbe, ad esempio, pensare di mescolare insieme la cioccolata e la carne macinata fine per creare un dolce caratteristico della contea di Modica, gli “impanatigghi”, apparente contraddizione in termini, ma una delizia gastronomica conosciuta apprezzata in tutto il mondo. E se gli “impanatigghi” potrebbero sembrare un ossimoro culinario, non sono da meno le “cutumedde”, dal greco Kutnìs, ghiottoneria: polpettine di ricotta, farina e uova, fritte in olio bollente e addolcite col miele. Dolci semplici di una società fortemente agricola che utilizzava quel che aveva sempre a disposizione: il miele degli Iblei, citato persino da Omero, la ricotta, preparata sin dai tempi di Polifemo, forse il primo casaro che la letteratura occidentale ricordi, le uova, e l’olio di oliva, la cui coltivazione risale ai tempi dei sicani.
I siciliani sono riusciti a creare capolavori persino prendendo spunto dalle carestie che per secoli hanno imperversato in queste terre, dove una cattiva annata poteva gettare sul lastrico famiglie intere. Dalle leggende (ne esistono svariate versioni) che narrano di navi arrivate nei porti della Sicilia (si noti sempre il riferimento a chi arriva in una terra alla ricerca di qualcosa che si chiama speranza in un mondo migliore) nasce la cuccìa di Santa Lucia: grano, ricchezza della nostra terra, messo a macerare per giorni e poi condito con frutta candita, ricotta e cioccolata, la cui ricetta ritroviamo, anche nella versione salata, in un libro che racconta di memoria e di famiglia, intitolato “Santa Lucia, cunta, miniminagghia, cuccìa”, scritto da Maria Gulino ed edito da Armando Siciliano Editore. E infine, i biscotti, specie quelli che ancora si preparano in casa per le feste di Natale: il dolce Savoia, mescolanza di cioccolata e mandorle tostate, i mucatoli, scrigni di pasta che avvolgono il miele addolcito con le spezie, i biscotti ricci, onde di mandorle macinata guarniti da frutta candita, il riso nero, cereale cotto nel latte e mescolato con cacao amaro e zucchero, il pane parigino, filoncini di pasta frolla ripieni di marmellata di mele cotogne, il frutto dedicato ad Afrodite e già conosciuto dai Sicani: le dominazioni che hanno attraversato la Sicilia rivisitate nelle cucine di donne dalla bravura e dall’energia straordinaria, come la signora Gina che chi scrive ha avuto modo di conoscere e ammirare e che ripete gli stessi gesti compiuti da generazioni, tra tavoli infarinati, ceste di uova e forni di pietra.
Adriana Antoci