Le rappresentazioni del Crocifisso nell’arte non si contano. Non c’è stato artista che non si sia confrontato con il più grande dei misteri, che non abbia dato la sua personale interpretazione al dolore innocente, che non abbia volto il suo sguardo all’Uomo trafitto. Anche in terra di Sicilia, ovviamente. Ma in questo mondo dove stratificazioni e sovrapposizioni, idiomi, pensiero e genio si sono arricchiti nei secoli grazie alla condivisione di idee e di intenti, esiste una stranezza, una particolare interpretazione del Cristo Crocifisso, che rimanda alla dominazione spagnola, a monasteri e silenzi di conventi. Siamo a Scicli, nella parte sud-orientale dell’isola, città dove lo splendore del barocco ha creato magie come il Palazzo Beneventano, la Chiesa di san Bartolomeo, il Convento della Croce e dove fede e folclore si incrociano e mescolano nella processione del Gioia, l’esplosione di festa nella Domenica di Pasqua e dove si tramanda l’intervento miracoloso della Madonna che, nel lontano 1091, a cavallo di un bianco destriero scese dal cielo per aiutare gli sciclitani contro gli invasori a fianco dei Normanni di Ruggero d’Altavilla. Ma c’è dell’altro, di più nascosto e intimo, celato all’interno di una chiesa della città intitolata a San Giovanni Evangelista.

Là è conservato un dipinto che rappresenta il Cristo Crocifisso con indosso una gonna. Sì, proprio così, una gonna. Il Cristo crocifisso di Scicli, o Cristo di Burgos, è un dipinto che rappresenta Cristo con indosso non il solito perizonium, cioè una striscia di stoffa già in uso in epoche antiche, ma una gonna, lunga fino ai piedi, di colore chiaro e arricchita da balze di pizzo, dove sono collocate due coppe un uovo di struzzo a ricordo della perfezione della nascita. Opera di don Juan de Parlaz, come risulta dalla firma, il quadro ha chiaramente reminiscenze del “tenebrismo spagnolo” e rimanda al Cristo di Burgos, appunto, una statua leggendaria e ricca di mistero che si trova all’interno della cattedrale della Città, statua di cui si raccontano vicende straordinarie: realizzata forse da Nicodemo, il discepolo di Gesù, utilizzando pelle bovina (o umana, come dicono alcuni?), ha unghie e capelli veri ed è rivestito con una gonna di stoffa lunga fino ai piedi, il cui colore varia a seconda dei tempi liturgici canonizzati dalla Chiesa cattolica. Inoltre, ha all’interno una intelaiatura che permette di muovere braccia e gambe. Si racconta un aneddoto a tal proposito: quando la Regina Isabella di Castiglia provò a toccare la statua, questa si mosse con grande terrore della donna.

A questa statua si ispira il dipinto custodito a Scicli, dono della nobildonna spagnola Tereza de Cerratòn, arrivata in Sicilia con il marito Domingo, nominato nel 1696 Vicerè di Sicilia prima e poi, al termine del suo incarico, comandante della Sargenzia di Scicli. E qui, con ogni probabilità, insieme ad altri beni della famiglia, arrivò anche il quadro del Cristo in gonnella. Negli anni successivi Teresa rimase sola, dopo la morte dei due figli prima e del marito poi e allora decise, stremata dal dolore delle perdite devastanti, di rinchiudersi nel Convento appena fondato dalle Benedettine di Palma di Montechiaro e lì rimase fino alla morte. Del Convento non esiste più nulla, perché venne abbattuto e al suo posto venne costruito il palazzo che adesso ospita il Municipio di Scicli, mentre il quadro e altre suppellettili vennero portate nella vicina chiesa di san Giovanni Evangelista. Dimenticato e lasciato nell’abbandono, è tornato a nuova vita grazie a don Paolo Ruta, sacerdote appassionato di arte, al quale dobbiamo il merito di aver recuperato il dipinto e di avergli trovato una collocazione all’interno della Chesa perché potesse essere visto e ammirato dai moltissimi visitatori.
E dobbiamo ad un altro sacerdote, don Giuseppe Antoci, oggi parroco della Chiesa Madre di san Giorgio, la riscoperta e il restauro di un altro crocifisso, questa volta a Ragusa. Una storia strana, un racconto che si potrebbe intitolare “ex tenebris ad lucem.”

Ma andiamo con ordine. Nella chiesa Cattedrale dedicata a san Giovanni Battista, all’interno dell’aula capitolare, era stata posta da una ventina d’anni una statua del Crocifisso che abbisognava di una evidente opera di restauro. Ed è stato così che padre Antoci, direttore dell’ufficio Beni culturali della Diocesi di Ragusa, all’avvio dei lavori, si rese subito conto che sotto grossi pezzi di gesso e scagliola si nascondeva una statua risalente al secolo XIII/XIV; una scoperta straordinaria intanto perché pre-terremoto (dalla devastazione subita dalla mia terra nel lontano 1693 non è rimasto molto) e perché nella sua struttura (la magrezza, la conformazione anatomica delle braccia che lasciano intravedere le vene, le mani chiuse), ricorda proprio i crocifissi di tipo gotico del 1300-1400. Un unico pezzo di legno modellato custodito dentro un involucro di gesso e cartapesta per secoli, un ritorno alla luce dopo secoli di buio e di silenzio. Adesso la statua, restaurata grazie non solo al contributo dell’otto per mille ma anche alla generosità di privati, è stata collocata al centro della cappella posta sulla destra dell’altare maggiore. Due curiosità prima di chiudere: a Gravedona, in un oratorio di proprietà privata, esiste un dipinto identico a quello di Scicli.
E ancora: a Mazzarino, in provincia di Caltanissetta, si venera il “Signore dell’olmo”, un Cristo morto rivestito di pelle e posto in una bara pesantissima portato in processione la seconda domenica di maggio da 100 uomini nudi e in tunica bianca. Da Bergamo a Scicli, passando per Ragusa, uno scrigno di tesori, di fede e di mistero.
Adriana Antoci