Il numero segreto

Si divide tra scrittura e pittura, amandole entrambi, Pier Giuseppe Cavalli che entra a far parte della squadra di autori targati PlaceBook Publishing & Writer Agency con il suo romanzo “Il numero segreto”. Cavalli, classe 1964, è nato a Milano ma vive e lavora in veneto come docente di lettere. Proponiamo ai lettori una chiacchierata che abbiamo avuto con lui.

Raccontaci qualcosa di te, chi è Pier Giuseppe Cavalli?

Pier Giuseppe Cavalli (1964-2065). Sono ottimista, d’accordo, ma si consideri che non bevo, non fumo, mi curo, inoltre confido in future migliorie biomeccaniche dovute a nuove tecnologie, nonché in terapie che sospendano la morte cellulare. Dunque, capito al mondo a Milano, ma ormai sono veneto di adozione. Mi rimane dentro un po’ di milanesità, di moralina manzoniana mista a una specie di malinconia, che si manifesta quando vado in visita di parenti, in luoghi un tempo pieni di nebbia, che appunto oggi non c’è neanche più o fa una comparsata di tanto in tanto, per cui mi sa che il tizio che propose di spianare una montagna per farla scappare, la nebbia, alla fine lo abbiano ascoltato. Meglio così, meno incidenti, suppongo. Qual era la domanda? Mi sono perso.

Dovevi raccontarci qualcosa di te…

Parliamo di scuole. Faccio le elementari qua e là, Bergamo, Novara (due scuole diverse), infine un paese perso nel nulla tra Novara e Vercelli, San Germano vercellese. Vicissitudini familiari. Poi mia madre torna alla base (a babbo morto, come si dice), Villadelbosco, altro paese ancora più piccolo e sempre nel nulla, stavolta tra Padova e Venezia, e lì ci fermiamo. Finite le Medie, visto che non c’erano soldi, mi iscrivo al Geometri, come lo definisce anche Vitaliano Trevisan (molte analogie con lui, non ultima l’ammirazione per Thomas Bernhard e Samuel Beckett). Quello del geometra mi è rimasto come un marchio: all’ultimo anno di Lettere una docente, all’esame di Filologia dantesca, mi chiede dove compare la parola Geomètra nel divin libro. La prendo bene, dopotutto ha ragione viste le mie umili origini scolastiche, e poi la risposta è facile, perché si tratta dell’ultimo canto dell’ultima cantica, dalle parti del Munifico Fattore, che poi sarebbe Lui il Geometra. Tra l’altro, io manco dovevo iscrivermi a Lettere (Moderne, s’intende), ma all’Accademia di Belle arti di Venezia. Sono ambidestro, nel senso che avrei la propensione sia per la scrittura che per il disegno. Il Liceo artistico non avevo potuto farlo, ma una volta diplomato ero deciso a rifarmi, anche perché la situazione economica a casa era migliorata. Così mi presento all’Accademia per immatricolarmi, ma scopro che non posso essendosi l’esame di ammissione conclusosi la settimana prima, e io, non avendo un diploma artistico, avrei dovuto sostenerlo per accedere all’iscrizione. Così, per non perdere l’anno, mi iscrivo a Lettere; e dopo un lustro mi laureo. Ho fatto abbastanza in fretta, e anche togliendomi dalle scatole il servizio militare, durante il quale ho sostenuto tre esami. Un anno perso a prescindere quello della naja, nessun dubbio su questo, ma se mi chiedessero adesso cosa ne penso, direi che forse sarebbe meglio ripristinarlo; non una leva con stupidi addestramenti, campi, nonnismo e succedanei, ma un breve servizio di utilità pubblica; qualche mese insomma. I ragazzi di adesso ne hanno bisogno come il pane, e anche le ragazze. Ma sto divagando, vero?

Sì, però non stai andando fuori tema…

Ah, il fuori tema! Oggi correggendo i compiti di Italiano lo valuto male, ma quando ero studente io, il mio era tutto un fuori tema. Quando ero studente io, mi suona da vecchio, però. Il guaio invece è che mi sento, anzi sono giovane dentro. Altra frase da vecchi, oltre che banale. Ma cosa non lo è? Insomma, è stato già scritto tutto, ma proprio tutto, come si può non essere banali? Shakespeare parecchie sue cosette le ha prese da Saxo Grammaticus, dagli avventori dei pub, dai suoi attori, che poi hanno riscritto i suoi drammi ricordandoseli a memoria. Un casino. Una volta laureato, comincia la via crucis delle supplenze a tempo ridotto. Tre anni a lavorare poche settimane ogni tanto. Per fortuna ho un lavoro stagionale in Zuccherificio, vicino a casa, che mi permette di insistere con l’insegnamento. Finalmente arriva la prima supplenza annuale e da lì non mi fermo più, fino al passaggio in ruolo, e a oggi che si comincia a parlare di pensione. Non io, ma i miei colleghi. Per quel che mi riguarda continuerei ad andare a scuola fino alla tomba, mi diverto troppo. Ma ormai l’insegnamento in classe è solo una parte, e neanche la principale, di questo mestiere; il resto è burocrazia, corsi, riunioni, aria fritta.

E qui veniamo al tuo romanzo…

Direi proprio di sì. Nel mio DNA c’è il genere fantastico, con qualche incursione sgangherata nella fantascienza. Sgangherata perché non ho una preparazione scientifica, leggo molti saggi divulgativi di biologia, astronomia, neuroscienze, ma non li studio e prima o poi si volatilizzano per far posto ad altre letture. Ogni tanto però scrivo anche storie realistiche, soprattutto con me o un alter ego come protagonista. Il numero segreto è una di queste. Realistico però, a pensarci bene, è una parola grossa, nel senso che in questo romanzo racconto cose che hanno dell’incredibile. Ma sono successe davvero. Guai con la pubblica amministrazione, assegni a vuoto, esami ridicoli con esaminatori che lo sono altrettanto, scadenze, multe, processi, il tutto sempre con esiti imprevedibili, situazioni che a guardarle oggettivamente sono kafkiane. Insomma, alla fine questo romanzo memoir è anche lui un lavoro fantastico. In più c’è l’epilogo che è una specie di horror fantascientifico. Immagino che dopo aver letto questo spot nessuno lo vorrà leggere.

Al contrario. E il titolo?

Il numero segreto in effetti è fuoriviante, il lettore si aspetta, che so, qualcosa sui templari. Una editor, bocciando il romanzo, scrisse che tra i difetti c’era appunto quello del titolo, che non rispecchiava la storia raccontata. Però i numeri segreti lì dentro ci sono, e fin dal primo capitolo, quando racconto di non conoscere quello del mio Banco Posta; e alla fine, quando un’Entità superiore interroga me, morto, chiedendomi ancora una volta un numero segreto. Insomma, non parlerò di congiure spionistiche o di trame esoteriche, però il titolo ci azzecca eccome con il contenuto.

Ci parli del tuo rapporto conflittuale con la burocrazia?

A dire il vero, secondo me è poco interessante, nel senso che un rapporto conflittuale con la burocrazia credo lo abbiano tutti. E se non ce l’hanno, dovrebbero. Ammetto che io sono il disordine fatto persona, e che perdo spesso documenti personali, ricevute di pagamento, codici, però non mi toglie dalla mente nessuno che c’è stata una proliferazione eccessiva, specie con l’avvento dell’informatica, e che gran parte delle scartoffie che compiliamo è inutile, un in più che si fa solo perché è possibile farlo. Quando si scriveva con la penna, a un certo punto ci si fermava, perché arricchire un verbale, aggiornare un elenco, differenziare un report, insomma aumentare il volume di carta e lavoro, costava fatica. In realtà anche adesso, solo che farlo al computer ci dà l’illusione che stiamo prendendo una scorciatoia, mentre al contrario allunghiamo la strada perdendoci in meandri di copia e incolla, tabelle, voci fuori campo che ci intontiscono allontanandoci dalla realtà. Ammesso che la realtà sia ancora quella che sta fuori da uno schermo. La mia è retorica retrograda, vero?

Quindi sei contrario all’informatica?

Per niente. Prendiamo il caso del sequenziamento del DNA: senza i computer saremmo ancora ai nastri di partenza. E questo è solo un esempio. Ben venga l’informatizzazione, allora.

Da dove prendi ispirazione per i tuoi lavori?

Vai a Saperlo. Immagino dal vissuto, e naturalmente dai libri che leggo, i film che vedo, le mostre a cui vado, i viaggi. Spesso un’idea mi viene in macchina, guidando e pensando ai fatti miei, o ascoltando la radio. Può capitare anche che me la appunti (a un semaforo); poi magari non se ne fa niente, oppure resta là e germoglia; ma non è detto. Ho un file di oltre duecento pagine che ho nominato Ipotesi di racconto, ma gran parte di queste cose non si realizza in un testo finito. In generale comunque i miei racconti e romanzi nascono da fatti paradossali, situazioni al limite, innovazioni tecnologiche all’ultimo grido, ossessioni; i personaggi e la trama vengono dopo.

Ci sono autori che consideri maestri?

Moltissimi. Per lo stile sicuramente Kafka, che racconta cose assurde come fossero normali, e difatti purtroppo lo sono. Poi, amo molto i romanzieri ottocenteschi, la linea del realismo Balzac (il migliore), Flaubert, Zola; Dickens come grande affabulatore; Tolstoj su tutti. Poi i maestri del genere fantastico come Poe e Lovecraft, e un romanzo cosmico come Moby Dick. E che dire di Don Chisciotte? Un faro. Degli italiani prediligevo Calvino, ma adesso mi è caduto in disgrazia, troppo macchinoso, cervellotico. Svevo, certo, meno Pirandello. Un cosiddetto minore come Piero Chiara, che è in realtà un grande narratore. Potrei continuare per pagine. Ah, sì, Ippolito Nievo con Le confessioni di un italiano; meglio di Manzoni, anche se I promessi sposi è un grande romanzo. Gli americani, certo, Bellow, Philip Roth; ma i Roth poi sono almeno tre, tutti bravissimi: Henry, quello di Chiamalo sonno, Joseph, con La cripta dei cappuccini o il Santo bevitore (grande contastorie anche lui) e appunto Philip. Poesia poca, anche se ho cominciato a scriverne. Orlando furioso, sicuramente; l’ultimo Montale ma anche quello degli Ossi; in generale i poeti che capisco, mentre gli ermetici, quelli troppo astratti non li amo, probabilmente perché resto un prosatore coi piedi per terra anche quando leggo. Niente in traduzione, comunque, perché la prosa è un conto, ma la poesia non si può leggerla tradotta-tradita, si perde il ritmo. E Stevenson, dove lo mettiamo? E Asimov? Tolkjen? Basta così.

Dicevi di essere ambidestro e che l’Accademia sarebbe stata la tua vera strada: che rapporto c’è tra la tua pittura e ciò che scrivi?

I miei quadri e disegni sono astratti. Non ho coltivato il disegno dal vero, anche se aveva una mano discreta, per cui non so riprodurre, né mi interessa. Anzi, trovo una perdita di tempo la rappresentazione realistica, a meno che non abbia a che vedere con il surrealismo come nel caso di Magritte (che però non mi entusiasma), oppure Balthus, per quel modo di rappresentare le figure umane come manichini, e gli ambienti come luoghi sospesi, fatati, tipo la Ferrara metafisica di De Chirico. Ma i miei riferimenti sono altri, Klee su tutti, un astrattista con qualche ricordo, come amava definirsi. Gli informali, l’art brut dei matti, tutta la pittura che si riferisce ai disegni preistorici o dei bambini. Monet, meglio ancora Manet. Anche Picasso, certo. Ma pure qui i nomi sono davvero tanti. Burri, De Maria, Biggi (salto di palo in frasca). Per quanto riguarda i miei lavori (perlopiù tele a tecnica mista), sono molto colorati, coloratissimi, e cerco sempre di ridurre la ricchezza cromatica a un equilibrio. Ridurre? No, non è una riduzione, anzi. Diciamo che quanto a ispirazione ho parecchie bestie feroci a cui badare, se riesco a metterle in gabbia alla fine il quadro è riuscito. Se è riuscitissimo, la gabbia vola. Anche coi racconti. Le storie sono fantastiche, ma con equilibrio, e le assurdità che racconto alla fine devono trovare un motivo, incastrarsi nel disegno complessivo.

Succede anche con l’insegnamento?

In classe cerco di essere creativo. Faccio molti esempi concreti, spesso legati alla realtà quotidiana. I fenomeni storici e letterari hanno bisogno di essere riportati a situazioni dove ci si possa immedesimare. Guai a rimanere nella teoria; e poi si rischia di prendersi troppo sul serio, che è la cosa peggiore. Di gran lunga la cosa peggiore. Una poesia deve piacere, farti dire: però… Così un romanzo, che in definitiva è una storia e non la tavola della Legge calata da dèi superni. All’inizio del mio insegnamento facevo spesso schemi alla lavagna, con frecce, numeri, definizioni. Poi ho smesso, perché mi sembrava arido; adesso da un po’ ho ripreso. Serve a dare un ordine alle mie divagazioni. Tendo a fare troppi collegamenti tra film, libri, notizie, aneddoti biografici, per cui lo schema serve a rimettere i colori nella scatola. E comunque mai più di venti minuti, mezz’ora, perché questo è il tempo che i ragazzi ti dedicano, poi la concentrazione cala, anzi finisce; è già tanto se stanno attenti quel lasso di tempo. Oggi è così. E a proposito dei collegamenti, sarei contrario e parecchio, perché non mi ci ritrovo in questa cultura dello zapping, per cui tutto si può legare a tutto; vengono fuori connessioni ridicole, esempi di comicità involontaria che, purtroppo, molti miei colleghi prendono sul serio. Come quella volta che suggerii, al corso di Odontotecnici in cui insegnavo, che da un lavoro sulla protesi si poteva arrivare a Dracula di Bram Stoker: lo avevo detto per burla e invece qualcuno mi fece i complimenti per la felice intuizione. Insomma, una cosa è una cosa, non c’è bisogno di legarla a qualcos’altro a tutti i costi. Solo che io, spiegando-divangando non riesco a trattenermi. Diciamo che sono tutt’uno con lo spirito dei tempi, un pesce nella Rete.

Quale messaggio vorresti che arrivasse ai lettori?

Nessuno. O meglio, mi piacerebbe che il mio romanzo fosse apprezzato come tale, ossia una storia che si fa leggere, per la quale valga la pena di impiegare del tempo. Nient’altro. Certo, i contenuti ci sono, ci mancherebbe, ma secondo me quello che deve contare per chi scrive è lo stile. I fatti narrati, dall’alba dei tempi, sono sempre più o meno quelli, amori, amicizie, tradimenti, vicissitudini, viaggi, scoperte, e via così; ma quello che veramente conta è come li metti insieme, le parole che scegli, la punteggiatura, l’ordito. L’ideale sarebbe che un lettore rimanesse inchiodato alla sedia (meglio ancora alla poltrona, o a letto) senza nessuna altra voglia che finire il lavoro che ha cominciato, ossia leggermi. Per questo Borges diceva che la forma letteraria ideale è il racconto, più del romanzo, perché lo puoi finire senza interruzioni e l’effetto è assoluto, totalizzante, senza il disturbo di una cena, del sonno, della vita che si intromette tra te e il libro che ti ha scelto.

E i tuoi lavori futuri? In questo momento stai scrivendo?

Non smetto mai. Ho appena finito un romanzo su un vestito stregato. E sto rivedendo una raccolta di poesie che spero di pubblicare entro quest’anno, s’intitola La crescita infelice ed è la terza e ultima parte di un trittico, diciamo così, ecologista, che ho iniziato con 1986 e Una modesta proposta. Non riesco a stare senza scrivere. Da morto, nel 2065, chi aprirà i miei cassetti verrà sommerso dalle avventure.

Bianca Folino