4 Luglio: due film per capire l’America

Oggi Hemingway non festeggerebbe il 4 Luglio come un qualsiasi americano: rivolgerebbe invece un pensiero a Manolete, il torero più famoso di ogni tempo, celebrandone il compleanno perché come ogni grande artista proveniente da oltreoceano, era uno yankee atipico. Essere portavoce del profondo sentimento antiamericano con relativa feroce polemica contro il sistema politico e sociale probabilmente più contraddittorio al mondo è – a ragion veduta – prerogativa degli intellettuali statunitensi.
È fin troppo facile ergersi a giudici della morale a stelle e strisce quando si proviene da un’altra nazione dai lumi democratici completamente differenti con un background – specialmente quello europeo – radicato in una storia millenaria francamente impensabile per chi è nato nella “Land of the Free”.
La ridondanza sarebbe sterile e abbondante. Ciò non toglie che si debba, in Francia come in Giappone, in Zimbabwe come in Thailandia, osservare con molta cura ciò che accade in America per ovvie ragioni di influenza culturale e – direbbe il nostalgico – imperialista.
Ma in questo modo andremmo a finire in un ginepraio non soltanto pericoloso e inadatto, ma del tutto fuori tema.
Noi, da queste parti, parliamo di musica e cinema: e così faremo.

In Glengarry Glen Ross Alec Baldwin è l’emissario della sede centrale che ricorda a tutti il mantra: CHIUDERE SEMPRE UN CONTRATTO

Vogliamo introdurre, senza alcuna pretesa, una coppia di film (tratti dalla fertile terra del teatro, propulsore politico potentissimo in quel di New York) che narrano il capitalismo statunitense e la sua declinazione democratica dal punto di vista più oscuro e laterale: in prospettiva. Vogliamo proporre la visione di una tematica scomoda, di complessità critiche, di serpeggianti gimcane nella Grande Contraddizione. Quella che si divide tra libertà assoluta e diritto inalienabile messi in contrapposizione ad un agonismo e arrivismo sociali da capogiro. Una nazione tanto inclusiva da fregiarsi del proprio straordinario Ius Soli e che parallelamente erge un muro invalicabile e protetto militarmente al confine col Messico. Una nazione tanto isolazionista – al limite della paleopolitica – quanto espansionista ed “esportatrice di democrazia”. Un’America di sogni o di illusioni? La domanda rimane senza risposta, perduta chissà dove tra i suoi tramonti mozzafiato e le sue ferree regole di inclusione scolastica, dove tutte le feste religiose devono essere festeggiate e rispettate da tutti gli alunni, indipendentemente se questi abbraccino o meno tali confessioni. Leggi luminose di questo genere che si scontrano a trecento chilometri orari con la polizia che spara troppo spesso e troppo per caso agli afroamericani. E potremmo andare avanti per ore.
Ebbene, non c’è cinema più duro e aggressivo, più lampante ed esplicativo, del cinema americano d’autore, quello che arriva dal teatro, dalla prosa tagliente, per spiegarci tutto quello che uno “straniero” non potrà mai comprendere appieno.

Il Quattro Luglio è una data fondamentale per riflettere, un’occasione unica per cercare di migliorare quel senso di libertà che è scritto nel profondo pensiero illuminista che ha generato la Costituzione statunitense. Il Quattro Luglio è il giorno perfetto per guardare o riguardare queste due pellicole che fungono da manuale di diritto e dovere alla critica americana.

Il personaggio interpretato da Jack Lemmon è il più significativo ed ispirato. Rappresenta tutta la contraddizione americana ed è tanto meraviglioso quanto spregevole

Americani (Glengarry Glen Ross)

Di David Mamet, con Ed Harris, Jack Lemmon, Al Pacino, Kevin Spacey, Alec Baldwin

Solo a guardare il cast ci rendiamo conto della maestosa opera cui assisteremo. Se poi dietro la macchina da presa e soprattutto alla scrittura dei dialoghi figura uno dei massimi sceneggiatori americani viventi, noto anche come drammaturgo eccezionale in quel di Broadway, ci sentiremo in una botte di ferro. Tratto appunto da una pièce teatrale dello stesso Mamet, Glengarry Glen Ross racconta – attraverso un copione fatto di botta e risposta serrati come una mitragliatrice da campo, – la deriva destrutturante e consumistica, destinata al grande fallimento, del real estate immobiliare. Quattro agenti di una filiale hanno 24 ore di tempo per chiudere la vendita di un complesso di nuove ville in Florida; se non riusciranno nell’intento, la sede chiuderà e finiranno tutti col culo per terra. Chiudere un contratto è una necessità che afferma il proprio ego più del guadagno stesso; generare un bisogno è alla base del rapporto domanda-offerta; stravolgere e violentare se stessi per conquistare e mantenere una posizione è la nuova frontiera. Le tematiche di Mamet, messe in atto da interpreti semplicemente sbalorditivi, sono la logica piramidale del successo e l’abisso ineluttabile del disastro economico, che diventa esistenziale e infine fisiologico, quasi endemico, di una nazione.

De Vito e Spacey, gli stanchi e provati rappresentanti di commercio le cui convinzioni vacillano

The Big Kahuna

Di  John Swanbeck, con Danny De Vito e Kevin Spacey

Guardare The Big Kahuna è certamente divertente e spassoso, tanto da non farci rendere conto di quello che apprendiamo durante la visione. Diretto dal mestierante teatrale Swanbeck, è scritto da un altro drammaturgo e commediografo dal talento cristallino e dall’intelligenza fuori dal comune: Roger Rueff. Già per questo motivo il film è da definirsi geniale. Due rappresentanti di una ditta di aspirapolvere passano un weekend in hotel nella cui hall è in scena una presentazione di prodotti di varie marche. Una sorta di summit aziendale in cui l’arrivismo e la guerra tra indebitati diventa – attenzione – non violenza e degrado, bensì teatro dell’arte. Maschere che mutano ed evolvono, devolvono e nuovamente mutano; ode al niente presentato come tutto, materia di scambio dal valore inestimabile. La fine del film, di cui non vi sveliamo niente, è immensa soltanto per la canzone che passa sui titoli di coda: una specie di brano motivazionale, parlato su base musicale AOR e intervallato da sapienti ritornelli gospel che esaltano il lato puritano di tutta la libertà che si acquisisce diventando venditori migliori, imprenditori migliori, proprietari di proprietà private migliori. E tutto si basa sull’illusione new age che fu grande tormentone dell’epoca: “Today is the first day of the rest of your life”. La pellicola, con un’ironia bestiale e densa di dialoghi degni da essere insegnati nelle università, è talmente tagliente, affilata, acuta e brillante da far sì che lo squallore entri dentro di noi; nella moquette, nei microfoni che funzionano male, nei bagni intasati. In un midwest che profuma ancora di ascensore anni settanta, arriva il progresso neocapitalista di pasoliniana memoria.

Michele Simonetti