Ciclicità del tempo, soggettività delle esperienze, dolore e amore. In una sola parola, vita che è il soggetto principale dell’ultima silloge di Ester Guglielmino intolata “Altre stagioni di Morte e di Amore” edita da PlaceBook Publishing & Writer Agency. La poetessa parla soprattutto di stagioni dell’anima in questi versi. Ester Guglielmino nasce a Modica dove tutt’ora vive con la sua famiglia. Laureata in Lettere Classiche a Catania svolge la professione di docente di lettere e latino in un Istituto superiore. L’abbiamo già conosciuta in occasione dell’uscita della sua prima silloge “Sull’orlo di un bicchiere screziato di rossetto” alla quale ha fatto seguito, lo scorso anno “Il canto muto delle stelle”. Ora l’abbiamo intervistata per questa sua terza uscita poetica.
Che significato ha il titolo della tua silloge?
A livello più epidermico, il titolo della raccolta vuol dire che – qualsiasi cosa sia potuta succedere nella nostra vita – arriveranno sempre altre stagioni, con il loro carico di gioia o di dolore, e che noi staremo sempre lì pronti ad aspettarle, ogni volta come se fosse un inizio nuovo. Tuttavia, a livello più profondo, Altre stagioni di morte e di amore vuole essere, soprattutto, una riflessione sulla dimensione soggettiva del tempo. Esiste infatti un tempo oggettivo, impersonale che è quello che appartiene a tutti e che, in fondo, non appartiene veramente mai a nessuno; è il tempo lineare degli orologi, dei calendari, degli anni che passano, della storia che scorre. È il tempo che non riusciamo a dominare e che fa paura. Poi esiste, invece, un tempo soggettivo, che è il risultato della percezione che noi abbiamo di quanto ci accade e ci si evolve attorno. È il tempo degli inizi e dei sogni, dei progetti e delle aspettative, delle delusioni e delle soste, è il tempo degli arrivi e delle ripartenze. È il tempo ‘nostro’, insomma, quello che filtriamo attraverso il nostro corpo e la nostra anima ed è anche l’unico tempo di cui siamo veramente padroni, quello da cui distilliamo il senso del nostro essere al mondo. Un tempo multiforme, perché il mio tempo di adesso non sarà mai quello delle mie figlie o dei miei studenti o di mia madre; pur abitando gli stessi anni, ciascuno sarà portato a caricarli di consapevolezze e aspettative diverse, magari divergenti. Per questo credo che non si debba mai demonizzare troppo il presente né chiudersi nell’esaltazione asfittica dei ‘bei tempi d’una volta’; l’oggi in cui viviamo per tanti rappresenta il proprio ‘tempo migliore’ o l’unico che abbiano mai vissuto e come tale va rispettato.
Stagioni in senso di cicli?
Sì. Il corollario implicito in un’idea soggettiva di tempo è l’idea di un tempo circolare, di un ciclo che ritorna e che si ripete, ma che solo apparentemente è sempre uguale a sé stesso, perché è nell’abbraccio di questo cerchio che viene tesaurizzato ogni nostro raccolto più importante. E non è detto che si tratti sempre di grano maturo, anzi. Ci sono esperienze dolorose che ci toccano nel profondo, ferite che lasciano grosse cicatrici, eppure in qualche modo sono determinanti per la nostra crescita. Quindi non è giusto pensare che solo le gioie o i momenti piacevoli vadano salvati, va salvato quanto ci ha reso e ci rende le persone che siamo, con tutto il conseguente carico di estati o di inverni cerebrali passati o da passare. È questo il nostro piccolo tesoro, l’unica cosa che possediamo saldamente e che possiamo donare con consapevolezza agli altri. Ho cercato di parlare di questo attraverso un cammino che tocca, o cerca di toccare, tutte le stagioni dell’anima, sia a livello individuale che a livello più generale, perché sono pienamente convinta che questa ciclicità riguardi non solo il singolo ma la storia tutta.
E perchè avvicinare l’amore alla morte?
Perché amore e morte sono strettamente legati, per ossimoso e per contiguità. Se è vero che ogni inizio è sempre un atto di amore, è anche vero che ogni cosa che inizia avrà inevitabilmente una fine, ma nessuna morte è mai tale da annullare completamente la materia o – se si è credenti – lo spirito vitale; quindi verosimilmente – sia che si abbracci una fede materialistica sia che si abbracci una prospettiva provvidenzialistica – non esiste morte che attraverso una forza rigenerante non si tramuti in altro, e che cos’è l’amore se non forza rigenerante? Quindi amore e morte sono un ossimoro ma sono anche posti, paradossalmente, su una linea di continuità.
Sembra di cogliere in alcuni versi anche il passare del tempo…
Il tempo, sia esso inteso come dimensione lineare che come dimensione circolare, passa lo stesso. Tuttavia, dovremmo piuttosto chiederci cosa possiamo salvare del tempo e in che modo possiamo salvarlo. Del tempo, io credo, possiamo salvare la memoria delle cose, il ricordo del nostro vissuto, del nostro operato, delle nostre conoscenze. Sono i fotogrammi cristallini che rimangono della nostra esistenza e con cui dobbiamo imparare a convivere, non per commuoverci – o almeno non solo – ma per dare loro il giusto peso e farli fruttare nella nostra esperienza di vita. E in che modo possiamo consegnare agli altri questo nostro piccolo tesoro personale se non attraverso la scrittura? La scrittura è, dall’origine della civiltà, l’antidoto per eccellenza a ogni forma di dimenticanza. Sembra un’idea scontata e invece non lo è, perché mi pare che la nostra società sia ormai da troppo tempo orientata verso la generalizzazione e l’omogeneizzazione delle esperienze. E invece non è così, la parola è uno strumento potente di distinzione, in grado di comunicare individualità specifiche e memorie irripetibili.
Quanto è importante per te la parola?
Credo che le parole debbano riconquistare la propria dignità di stare al mondo e di rappresentarci. Le parole sono la chiave di lettura più autentica di una società e se la nostra società predilige parole ‘poco chiare’ (a volte volutamente straniere o deformate) o soprattutto ‘poco sfumate’ (tutte bianche o tutte nere), dovremmo farci qualche domanda. Perché un mondo senza sfumature è sempre il peggiore dei mondi possibili. Purtroppo, lavorando a scuola, mi accorgo spesso di quanto si sia irrimediabilmente impoverito il bagaglio lessicale dei ragazzi, di quanto si siano perse le gradazioni di significato e spesso anche la capacità di coglierle. Io credo – e cerco di farlo nel mio piccolo – che è da lì che bisogna ripartire, che la soluzione non sia semplificare ancora di più – come si tende a fare – ma stratificare il senso, diversificarlo, stemperarlo, creare pensiero critico insomma, e la poesia può fare tanto in questa direzione.
E il silenzio?
Non amo particolarmente il silenzio, forse perché non amo la solitudine e credo che questo, in fondo, sia un mio limite. Da buona ansiosa cerco sempre di attenuarlo con la musica, quando non lo scelgo e sono costretta a subirlo. Tuttavia c’è un silenzio che reputo assolutamente necessario ed è quello interiore ovvero la possibilità e la capacità di ascoltarsi dentro, di spegnere quel sottofondo rumoroso così invasivo e fastidioso che pervade tutte le nostre giornate, in ogni momento. Il silenzio è il coraggio di fermarsi, di pensare, di cercare di capire cosa senti davvero. È il tentativo di dominare ciò che ci sta attorno, invece di farsi trascinare. Non è un percorso facile, ci vuole molta autodisciplina e io non penso di possederla del tutto, ma la scrittura aiuta.
Che significato dai invece al non detto?
Un grande significato. Io credo che il pudore del non dire vada difeso a ogni costo, che non tutto possa e debba essere condiviso, che non bisogna mai svuotare completamente sé stessi; quindi il non detto, in un certo senso, è il nostro patrimonio emozionale più intimo, è quella zona d’ombra che deve restare solo nostra e alla quale si può guardare molto nella scrittura. Da questa prospettiva, il ‘non detto’ è – non meno della parola – frutto di una scelta accurata. Ad esempio, decidere di non condividere i propri pensieri distruttivi o i propri stati d’animo peggiori è un atto di grande altruismo, secondo me. E verso chi è più fragile di noi diventa quasi un dovere, non solo una scelta.
Memoria e oblio vanno di pari passo a tuo giudizio?
Come dicevo prima, io credo che la memoria sia il distillato migliore della nostra esperienza e mi piace pensarla come un grande fazzoletto bianco di lino che trattiene fra le sue trame tutto ciò che non è abbastanza sottile da sciogliersi nella linearità del tempo. In quanto tale, la memoria non va mai gettata nell’oblio. A un livello più alto la stessa cosa si verifica anche nel percorso dell’umanità, la memoria è l’essenza di ciò che la storia ci ha insegnato, degli sbagli commessi, dei correttivi apportati o non apportati, quindi affogare tutto questo nella dimenticanza vorrebbe dire cancellare secoli di lezioni, positive e negative assieme, da cui poter e dover imparare. Senza memoria non esiste civilizzazione e senza civilizzazione non esiste neanche l’uomo. Dobbiamo resistere di fronte alle attuali tendenze a mettere tutto in uno stesso calderone, perchè la memoria è distillato non è mai minestrone.
Di tutti questi versi, cosa vorresti arrivasse ai lettori?
Vorrei arrivasse l’attenzione per la scelta della parola, il verde o il rosso di un’immagine così come l’ho pensata, il ritmo implicito nella mia lettura. Significherebbe aver indovinato già più di qualcosa… Ma sappiamo bene che chi scrive fa solo – o tenta di fare – metà dell’opera, la restante metà spetta al lettore e ogni lettore è un mondo a sé. Spero di portare qualcosa di mio dentro quel mondo. Credo sia l’unica vittoria possibile e auspicabile.
Come promuoverai il tuo libro?
Non sono una fanatica delle promozioni, che peraltro spesso mi sono ritrovata a fare – piacevolmente e con più che discreti risultati – per gli altri. Ma il tre è un numero speciale e quindi ho già in programma qualche incontro, presso dei centri culturali e degli istituti scolastici della mia provincia; a maggio poi avrò il piacere di partecipare con la Placebook (che mi ha dato questa possibilità) al Salone del libro di Torino e spero proprio che sia l’inizio di una nuova stagione.
Bianca Folino