Corri, uomo. Corri

Se vi è capitato, in una serena notte d’estate, di osservare il cielo, di certo avete creduto di vedere un’infinità di stelle. Beh, sbagliavate. Non erano stelle: erano gli spiriti brillanti dei defunti Tarahumara. Almeno questo è quanto sostengono loro. I Tarahumara, una popolazione che vive tra i canyon della Sierra Madre Occidental nel nord del Messico, dove si è ritirata cinque secoli fa per sfuggire agli invasori spagnoli. I Tarahumara sono persone reticenti e riservate che vivono a grandi distanze l’una dall’altra, in caverne o in piccole case in legno o in mattoni di paglia e fango.

Forse è bene precisare che producono una sorta di birra ottenuta dalla fermentazione del mais, cereale che coltivano in piccoli appezzamenti che arano manualmente. E non è escluso la loro particolare visione del cielo notturno sia influenzata dall’abbondante consumo che fanno di quella bevanda. Nelle cerimonie si radunano e se la passano di mano in mano, sorseggiandola da una mezza zucca svuotata, fino a che non diventano particolarmente sciolti, sognatori o bellicosi e si distendono quindi per recuperare le forze dormendo. Che di “naturale” questo popolo abbia molto non c’è dubbio, ma cosa c’entra tutto questo con la corsa? Questa tribù messicana vive da generazioni in insediamenti situati a grande distanza tra loro. Questi insediamenti sono collegati da una rete di stretti sentieri lungo i canyon attraverso i quali i Tarahumara si spostano per comunicare, trasportare merce e cacciare. Sono, infatti, dei corridori da endurance incredibili. Arrivano senza difficoltà a distanze superiori ai 300 km in una sola sessione, in due giorni, attraverso sentieri impervi. In questa tribù bambini, uomini e donne di ogni età corrono, e persino i più anziani vantano prestazioni che definire olimpiche sarebbe riduttivo.

Cacciano comunemente con arco e freccia, ma sono conosciuti anche per la loro abilità di inseguire correndo cervi e tacchini selvatici fino a farli letteralmente morire per sfinimento, come racconta l’antologista Johathon Cassel. Esattamente come facevano i nostri antenati.
Loro stessi si definiscono “Rarámuri”, ossia “piedi leggeri” o “coloro che corrono bene” e sono noti per aver irritato diversi ultramaratoneti americani battendoli senza troppe difficoltà in estenuanti gare di endurance, pur indossando solo i loro sandali huarache e fermandosi ogni tanto per fumare. I Tarahumara bevono come spugne, la loro dieta è a base di una specie di poltiglia di mais, vivono in perpetua pace e tranquillità e corrono diverse maratone una volta superati i 60 anni.

È come se le statistiche fossero state inserite nelle colonne sbagliate. Dovremmo essere noi ad avere probabilità di infortunio pari a zero, considerato che corriamo con scarpe da corsa così avanzate da avere microchips che controllano l’ammortizzazione.  Invece sono loro, i Tarahumara, che corrono molto di più, su terreni molto più impervi, indossando un sottilissimo sandalo di pelle. Alcuni studi hanno dimostrato che loro non si infortunano perché corrono appunto a piedi nudi sfruttando la predisposizione naturale del corpo a correre. Noi siamo abituati fin da bambini ad indossare calzature protettive e ormai ci troviamo con le gambe rigide e la postura trascurata. Le calzature ammortizzate ci costringono praticamente a correre in modo contro natura. I Tarahumara, al contrario, non hanno mai abbandonato la loro forma di corsa naturale. Fate una prova… se correte a piedi nudi farete punta-tallone (in lieve appoggio senza scarico completo) ed in questo modo il peso del corpo viene meglio trasmesso al suolo. La corsa con le scarpe ammortizzate ci “obbliga” a fare esattamente il contrario. I Tarahumara, sono infine conosciuti per il rarahipa, una massacrante prova di endurance che rientra fra i loro riti di iniziazione. In questo rito i ragazzi calzano solo i loro huarache di pelle di cervo e iniziano a correre calciando una sfera di legno per ore ed ore. Vince chi resiste più a lungo, restando da solo a calciare quella palla rudimentale. Per entrare in contatto con i Tarahumara occorre armarsi di tanta pazienza. I fondamenti del loro bon-ton nell’approccio a un nucleo abitativo impongono di sedersi a una decina di metri e aspettare: se nessuno si avvicina, è buona educazione alzare i tacchi e andar via; ma anche quando riesci a ricevere un invito, potresti trascorrere ore in loro compagnia senza che ci sia uno scambio di parole.

All’inizio è imbarazzante se non irritante, ma con il passare dei giorni cominci ad apprezzare la loro discrezione; usano le parole solo se strettamente necessarie, niente di superfluo: sguardi e piccoli gesti sono spesso più esaustivi di tante inutili chiacchiere. Le comunità sono composte da poche decine di famiglie che vivono in case di fango, oggi coperte da tetti di lamiera, a grande distanza le une dalle altre. L’economia è ancora basata sul baratto e non prevede l’uso esclusivo del denaro. La condivisione è alla base delle relazioni tra rarámuri, concetto definito dalla parola korima, difficilmente traducibile nella nostra lingua, con la quale s’intende l’obbligo della distribuzione della ricchezza per il bene di tutti. La korima permette a un membro della comunità di andare da uno più ricco e chiedergli mais e fagioli, senza che il gesto sia considerato elemosina.

In alcuni casi, un membro di una famiglia povera può anche trasferirsi in una più ricca, partecipando ai doveri della casa, come lavorare i campi, accudire i bimbi o filare la lana, finché sarà necessario. In questo modo si permette un’equa redistribuzione delle ricchezze all’interno della comunità. L’occupazione principale è la coltivazione di mais, alla base della loro alimentazione, e la coltura dei fagioli, il principale apporto proteico della loro dieta. Il consumo di carne è limitatissimo, anche se si allevano maiali che hanno sostituito la caccia del cervo, specie protetta; sporadicamente si utilizza carne essiccata di serpente. La principale bevanda alcolica è la birra di mais, della quale i rarámuri abusano ogni qualvolta c’è una festa. Forse si trasformano in stelle a causa della cirrosi epatica.

Guido Cornia