Un colpo solo

“Un colpo solo” è questo il titolo dell’ultimo romanzo di Roberto Capocristi edito da Placebook Publishing & Writer Agency. Classe 1966, Capocristi è nato e vive a Susa, ha al suo attivo 9 romanzi e anche se finisce ogni sua storia in modo che nessuno “possa chiedere il seguito” scrive moltissimo, ha materiale per diversi libri ma preferisce lasciarlo decantare anche se qualche racconto viene pubblicato nel suo blog personale. Ha ricevuto diversi premi e segnalazioni a concorsi letterari e di sogni nel cassetto ne ha molti anche se riguardano tutti la scrittura. Potremmo dire che più che una passione è proprio un amore per la parola scritta. Proponiamo la sua intervista ai lettori di Kukaos.

Raccontaci qualcosa di te, chi è Roberto Capocristi?

È una persona che detesta la banalità, che ama fare sempre cose nuove e che scrive come vive, rischiando, mettendosi in discussione e nutrendo con l’entusiasmo ogni singolo capitolo. Diciamo che è un sognatore che crede nella bellezza come la intendeva Dostoevskij (quella che salverà il mondo per capirci), che usa metodo e tecnica ma che allo stesso tempo si fida ciecamente della fantasia e dell’istinto. È un lettore fin da bambino e un consumatore di arte, musica e cinema. Il mio motto, non a caso, proviene da un vecchio film, non un lungometraggio qualunque ma Arancia Meccanica di Stanley Kubrik. Esce dal pensiero di Alex, quando il “nostro affezionatissimo” se ne va a spasso con i Drughi nella baia del cemento abitato e dice: “E d’un tratto capii che pensare è per gli stupidi mentre I cervelluti si affidano all’ispirazione”. L’aveva fatto scrivere mia moglie sulla mia torta di compleanno, qualche anno fa. Direi che già mi conosceva bene.

Come hai scelto il titolo del tuo libro?

Un colpo solo è un killer seriale. Ha l’antipatica attitudine di uccidere le sue vittime con un unico colpo di pistola sparato al cuore. Usa sempre la stessa arma, una Heckler & Koch (in omaggio ai tanti, particolarissimi e inquietanti killer partoriti dalla creatività di Dean Koontz che spesso impugnano quella marca di pistola) e lascia il bossolo sul luogo del delitto per firmare l’omicidio. Il nomignolo gli viene affibbiato in un momento di sconforto da Vittoria, il commissario di Polizia che lo insegue da mesi senza risultati. Mi piaceva l’idea che il romanzo portasse un titolo breve e facile da ricordare.

Nel tuo Thriller ci sono personaggi ben delineati, quasi dei caratteri, come li hai scelti?

I personaggi delle mie storie nascono da un’idea di base, da una bozza per così dire e crescono e si delineano in tutti gli aspetti solo durante la stesura del testo. Lo dico sempre ma è proprio così: li lascio fare fino a quando sviluppano la loro personalità, con gli spigoli, i sentimenti, i pregi e i difetti delle persone in carne e ossa. È un processo di formazione che richiede una certa dose di concentrazione e dedizione alla causa. Oserei dire che bisogna lasciarsi cadere in una specie di trance.

Però anche la piccola cittadina ha una sua parte, quasi corale…

Mi piacciono le piccole città, quelle dove fa il medesimo tempo in tutti i quartieri, per dire, quelle dalle quali puoi scappare dal caldo soffocante o dalla domenica con qualche giro di pedali. Le piccole città vanno prese sul serio, intanto perché è difficile nascondersi, passare inosservati. Un colpo solo, per esempio, l’assassino che ha dato il titolo al libro, merita rispetto perché riesce a sparire dopo ogni delitto senza infilarsi nei tunnel della metro o fuggire nei canali delle fogne o tuffarsi dal ponte dentro qualche fiume gigantesco e dalle mille anse. Insomma, Tom Cruise andrebbe in crisi e pure Daniel Craig. La piccola città è così, aiuta a sottrarsi ai cliché del cinema d’azione. La piccola città osserva, giudica e trae conclusioni. Per molti versi ha un brutto carattere e non tutti sanno viverci senza uscirne con le ossa rotte. Nello stesso tempo, però, si mette a nudo, è sincera e sa riconoscere I meriti, consolare e abbracciare i suoi figli. Queste contraddizioni, a mio modesto parere, sono perfette per tratteggiare le atmosfere che cerco per le mie storie.

E perché hai scelto la provincia per ambientare la tua storia?

Abito in provincia, la conosco bene.

La città senza nome che ospita le vicende di Un Colpo Solo, ricorda non poco gli ambienti dove sono abituato a stare, troppo vicini alla metropoli per reclamare l’indipendenza dei loro servizi e confidare nel successo delle loro iniziative, troppo lontani per sfruttare come si deve le opportunità che il capoluogo sicuramente offre. Nella fattispecie parliamo della Valsusa e di Torino e di questo rapporto di amore/odio e reciproca dipendenza che eviscera mille contrasti e altrettante idee.

Non sono originale, certo. La provincia è sfruttata da molti autori che gli riconoscono l’innegabile fascino (vogliamo parlare di Pupi Avati o di Joe Lansdale?) e tutti, da ogni angolo del mondo, scoprono in provincia qualcosa di perverso, curioso, eccitante o commovente. Qualche volta la provincia ha quel non so che di metafisico. Molto spesso ho ambientato le mie storie o loro parti nel caos della metropoli, fra tangenziali congestionate e grossi palazzi, con cecchini piazzati sui tetti o folli corse in moto sfidando il rosso dei semafori ma alla fine è lì che torno sempre, in provincia.

A quali autori ti ispiri?

Ho letto molti classici e giuro, la mia educazione sentimentale, arriva manco a dirlo da Flaubert ma anche da Zola, De Maupassant, Hemingway, Shelley, Garcia Marquez, Tolstoj, Remarque, Kafka, Buzzati, Calvino, Bukowski e tutta l’allegra compagnia dei grandi mai dimenticati. Per la letteratura di genere, invece, sono stati altri autori a prendermi per mano, a stimolarmi e aiutarmi a crescere. Devo molto a Koontz e a King (per me fra i migliori autori viventi) e non solo. Mi piace tutto quello che ruota intorno all’hard boiled e al pulp e allora Lansdale già citato prima ma anche Max Allan Collins, Winslow, Palaniuk e i cari vecchi Chandler e Spillane. Leggo, con soddisfazione e ammirazione, tanti fra gli autori cosiddetti minori o emergenti a vita, quelli che come me pubblicano con i piccoli editori e che si sbattono da mattina a sera per vendere e ritagliarsi quell’occasione per farsi conoscere. Alcuni hanno talento, coraggio e iniziativa. Tutti hanno voglia e fame. Sanno che non possono contare sul grande pubblico, quello dei talk show e delle televisioni e sono ogni momento sotto la lente d’ingrandimento per ogni riga che scrivono, per ogni parola che dicono o cosa che fanno e si sa, non vengono perdonati mai. Ritengo che questa sia una realtà che il pur pur magro pubblico di lettori dovrebbe considerare di più.

Com’è nata la passione per la scrittura?

Mi piace scrivere da sempre, da quando ho imparato a farlo. Sembrerò matto ma ricordo che il tema a scuola era per me occasione di svago. Ho sempre immaginato gli scrittori, già da ragazzino quando viaggiavo con la fantasia sulle pagine di Salgari o Verne o London, come degli esseri sovrumani, con la conoscenza del tutto come parte integrante della loro persona e la magica dote di osservare e immagazzinare qualsiasi dettaglio, odore o rumore per adoperarlo nei loro scritti con il massimo profitto. Nel mio ottimismo da ragazzino, immaginavo fosse gente felice, adulata e rispettata, ricca e invidiata. Poi ho letto le storie di vita di molti dei miei idoli e ho capito che lo scrittore è spesso un uomo normale, qualche volta solo, innamorato della bottiglia, timido e asociale e di frequente squattrinato, sfortunato se non addirittura caduto in disgrazia. Sono strano, lo ammetto, ma questa consapevolezza mi ha incoraggiato a essere scrittore a mia volta.

Tu hai già pubblicato e vinto anche qualche premio, non sei dunque nuovo al mondo editoriale, come sei venuto in contatto con la Placebook Agency?

Ho incaricato una mia amica, Alessandra. Le ho detto: Ale, mettiti al lavoro, cerca, gira il web sottosopra, scava fra opinioni e chat e seleziona degli editori che abbiano voglia, passione e iniziativa e che credano negli autori che pubblicano. Ah, controlla che non chiedano soldi. Alessandra si è messa al lavoro e dopo un paio di settimane mi ha consegnato una breve lista dove Placebook Agency compariva fra i primi nomi.

E com’è andata l’esperienza con loro?

Molto bene. Mi sbilancio e dico che Claudia e Fabio sono per prima cosa competenti, scrivono a loro volta e capiscono le esigenze e i problemi degli autori e sono sempre sul pezzo. Disponibili e attenti, hanno voglia e non si risparmiano e si vede che credono in quello che fanno. E poi sono pazienti. Diversamente non avrebbero sopportato la mia ossessiva pignoleria che qualche volta sfocia nella paranoia. Durante le fasi di editing è capitato che scendessi dal letto di notte per cambiare una parola che nella mia partitura ideale non suonava come avrei voluto e che il giorno dopo, di buona mattina, chiedessi loro di sostituirla et voilà: fatto.

Perchè I lettori dovrebbero leggere il tuo libro?

Dovrebbero leggerlo perché è nato per portare alla luce un mondo parallelo, un posto che si possa esplorare nelle sue tre dimensioni e dove sia facile dimenticare lo stress della giornata per il tempo della lettura. Con un colpo solo, ho scritto una storia al femminile che contiene tanti temi, dalla misoginia alla violenza sulle donne, dal femminicidio alla corruzione, dall’ecologia alla malapolitica. Come ogni mio romanzo, si sforza di non assomigliare a nulla che abbia già letto e a nulla che abbia già scritto. Adoro i colpi di scena, mi divertono e mi sembra di capire che i lettori ne vadano ghiotti e la struttura è quella che ho collaudato con soddisfazione, dove la storia avanza a ogni pagina e contemporaneamente ha sempre qualcosa di nuovo da svelare. Mi piace imprimere un aspetto, per così dire, cinematografico, di fornire una sceneggiatura solida e un andamento scorrevole dove immagini ed emozioni arrivano dirette. I lettori dovrebbero leggere Un colpo solo per innamorarsi dei personaggi o per odiarli quando necessario, per esplorare quei punti di vista e quei tagli di inquadratura che mi piace perfezionare affinché la lettura sia un’esperienza positiva per tutti.

Sogni nel cassetto?

Vivere di scrittura, scrivere soltanto e non preoccuparmi di tutto il resto. Alzarmi presto, fare un giro in bicicletta o una passeggiata e poi sedermi davanti alla tastiera fino a sera. Hemingway lo diceva: non c’è niente di difficile nella scrittura, basta sedersi davanti alla macchina da scrivere e mettersi a sanguinare. Poi torno sul pianeta terra, coordinate 45 gradi nord e 7 est, e mi accorgo che mancano i presupposti principali per avverare il mio sogno ma appena torno a sognare, come colpito da un’inguaribile ottimismo, mi immagino di vivere di scrittura, confrontarmi quotidianamente con i lettori, con gli autori e con storie sempre nuove da proporre. Vorrei girare il continente per parlare dei miei lavori, della loro genesi, delle emozioni, dei dubbi e dei ripensamenti, delle riscritture e delle tante ore passate sulla tastiera o sul web o sui libri per imparare tutto quello che serve. Vorrei parlare dei miei romanzi mai nati o di quelli rimasti a metà o di quelli pensati e poi abbandonati senza scrivere nemmeno una parola. Vorrei collaborare con qualche regista ma solo se di talento. Vorrei scrivere un romanzo a quattro mani anche se non so come si fa ma se qualcuno me lo insegnerà…

E progetti futuri?

Sto lavorando a un progetto con Placebook, una cosa che mi sta divertendo come un bambino e poi ho una saga già carica sulla rampa di lancio e che mi piacerebbe un giorno vedesse la luce e un paio di manoscritti pronti a diventare realtà appena si verificheranno le condizioni giuste. Sto collaborando con un attore in grande ascesa per mettere a punto una prefazione e so di potere contare su un’amica esperta e molto preparata in balistica, che nemmeno s’immagina quante cose dovrò ancora chiederle. Ho un amico espertissimo di chimica, erboristeria e alchimia che è sempre pronto per darmi le dritte giuste per inserire nelle mie storie veleni e droghe sempre originali e sto saggiando il mondo dei traduttori per propormi all’estero.

Bianca Folino