101 volte Andrew Fletcher

101 è il titolo del primo disco live dei Depeche Mode, uscito nel 1989, e durante il suo ascolto rimane inconfondibile come – perfettamente a tempo – Andrew Fletcher segua a ritmo impeccabile l’incipit di ogni brano battendo le mani. Il suo clapping (battere le mani in inglese) è diventato col tempo una piacevole abitudine e un segno distintivo di ogni show dei Depeche Mode. Riassumere Fletcher con il suo clapping sarebbe senz’altro riduttivo ma è sintesi mirabile di ciò che rappresentava per tutta la band: il collante con il pubblico.

Il mitico clapping

Andrew Fletcher è morto qualche settimana fa aprendo l’ennesima ferita nel tessuto emotivo di ogni appassionato di musica, davvero martoriato in questi ultimi anni da una miriade di dipartite premature e dolorose. Fletchie , come era noto tra i fan e gli amici, non era soltanto il tastierista e il manager dei Depeche Mode: era un fondatore, un elemento chiave, un caldo comunicatore, un abile produttore e soprattutto un eccellente musicista. Amico vero e fraterno di Martin Gore e Dave Gahan, seppe fungere da amalgama nei momenti più bui della band – e possiamo ben dire che ce ne siano stati di più che tenebrosi. Nel periodo di massima crisi, quella che vide la band sfibrarsi allo stremo tra il 1993 e il 1996, Fletcher rimase vicino a Gahan dopo il suo tentativo di suicidio a Los Angeles, così come comprese con estrema delicatezza e umanità la violenta depressione che colpì Martin Gore negli stessi anni.
Eppure il medesimo Andrew ebbe contatti ravvicinati col male oscuro durante tutti gli Eighties, in un decennio in cui la musica dei Depeche Mode camminava a braccetto con la compagna di sempre: la morte. E ogni sfumatura del blu notte e del nero avvolgeva la mente e il cuore di Fletcher esattamente come accadeva agli altri componenti, alla ricerca di un abisso personale che avrebbe sconvolto chiunque ma non loro; il trio che forse meglio di ogni altro ha saputo rappresentare il tormento della miseria umana attraverso la sintesi del suono elettronico.

I Depeche Mode durante gli Anni Ottanta

Mentre Gahan si poneva come carismatico Caronte, traghettatore di anime nei meandri più oscuri e Martin Gore scriveva testi criptici ed ermetici espressi in composizioni musicali asettiche, minimali e mortifere, Fletcher collaborava attivamente agli arrangiamenti e alle linee di basso – fossero esse eseguite con tastiera o qualsiasi altro strumento – regalando ai brani la giusta collocazione synth e gettandoli nella dimensione dell’ossessività lapidaria.
Non per nulla, gli album Speak&Spell , A Broken Frame, Some Great Reward, Black Celebration e Music for the Masses rimangono dei capolavori del genere, oltrepassando i confini della musica e stagliandosi in ogni anfratto tetro delle anime degli ascoltatori. I Depeche Mode mortificano tutto l’entusiasmo degli anni Ottanta giocando con gli stessi elementi di ogni band new romantic o new wave dell’epoca, spaccando in tre parti le speranze kitsch e gioiose di un ambiente perverso e ipocrita, pervaso di cinismo mascherato da incauto ottimismo.
Quando giungono gli anni Novanta – fuori tempo massimo – arriva Violator, un disco talmente feroce da traumatizzare l’intera band. Questo, tanto per capire i presupposti di una carriera che ha avuto due facce come la luna: una illuminata dalla luce di un pubblico immenso e letteralmente innamorato di loro; l’altra sempre in ombra, densa di un buio misterioso in cui si danza sul filo del rasoio a tu per tu con la morte.
Paradossalmente, quello che meno ha giocato con il Tristo Mietitore è stato il primo a raggiungerne l’abbraccio. Ma l’ironia, nel perfido gioco della fine, è un elemento chiave, quasi necessario, al fine di far comprendere che ogni canzone ci avvicina di tre o quattro minuti all’ultimo giorno su questa Terra.

I Depeche Mode in tempi più recenti

Fletcher accrebbe le sue capacità comunicative non solo a causa del fatto che Gore e Gahan fossero dei sociopatici schivi e silenziosi ma anche perché possedeva il piglio degli affari. Era astuto, meticoloso e affabile, sempre capace di far raggiungere alla band il massimo successo senza rischiare truffe o inganni da parte di questa o quella label, di questo o quel manager, di questo o quello sponsor. E non è stata certo cosa da poco.
Inoltre, le sue indubbie qualità musicali unite alle doti manageriali furono due ottimi propulsori professionali che permisero a Fletcher di ritagliarsi una brillante carriera parallela come produttore discografico. E’ salito fino ai piani più alti della Mute Records, l’etichetta che da sempre accompagna i Depeche Mode e ha fondato la Toast Hawaii, una casa discografica tutta sua, per altro sfornando della musica dignitosissima e di buon livello, sia commerciale che artistico.
Per anni ha sedotto i giornalisti con carattere e giovialità, mostrando in ogni intervista e conferenza stampa una flemma da vero gentleman, proteggendo di fatto ogni aspetto controverso legato alle complesse personalità dei suoi compagni di vita e di musica.
Fletcher, in definitiva, non era dunque un tastierista o un bassista o un producer: era uno scudo.
E nel momento in cui spira non solo un grande artista ma anche – e soprattutto – un grande uomo, il vuoto che lascia ha proporzioni troppo grandi per essere compreso appieno. Il dolore non lo contiene, ci resta solo la memoria indelebile delle canzoni dei Depeche Mode, al ritmo del suo inconfondibile e indimenticabile clapping .