Carrus navalis, carnem levare, carnevale

“Ed ecco che lentamente cominciò a sfilare la solenne processione. La aprivano alcuni riccamente travestiti secondo il voto fatto…: mentre queste divertenti maschere popolari giravan qua e là, la vera e propria processione in onore della dea protettrice cominciò a muoversi…”.

Sono frasi tratte dai libri VIII e IX de “Le Metamorfosi”, di Apuleio e riportano la descrizione di un corteo di maschere molto simile a quelli che vediamo ancora oggi nei giorni che precedono le Ceneri. Lucio Apuleio, scrittore e filosofo, è vissuto nel II secolo d.C., ma i festeggiamenti che descrive affondano le radici in tempi e in motivazioni lontani, e sono manifestazioni più ricche di simboli e di fascino.

Partiamo dal significato stesso della parola Carnevale. Secondo l’opinione di alcuni deriva il termine deriverebbe da Carnem levare, cioè togliere la carne in funzione dei quaranta giorni che precedono la Pasqua di Resurrezione. Sembrerebbe dunque una manifestazione fortemente legata ad un contesto cristiano, nata per voler trascorrere in allegria e in festa giorni lieti prima del pentimento e della mortificazione che ricordano il periodo trascorso da Gesù nel deserto in solitudine. Ma c’è un altro significato, più nascosto e più misterioso: il termine Carnevale potrebbe derivare da altre due parole, cioè Carrus navalis, indicando il carro trionfale che trasportava sul Nilo la dea Iside nell’antico Egitto e che ritroviamo nell’antica Roma dove la divinità trasportata sul carro è Dioniso, il dio dell’ebbrezza e del vino, dell’illecito e della trasgressione, nelle feste a lui dedicate, le Antesterie. La sovrapposizione di riti e di date in quello che si chiama con termine tecnico sincretismo (dal greco. συγκρητισμός, coalizione dei Cretesi, abitualmente in lotta fra di loro, ma che per una volta si riuniscono insieme contro un nemico comune) ritorna come una costante nel corso della vita dell’uomo: dalle maschere di fango e terra che in Mesopotamia, la culla della civiltà, uomini e donne indossavano nel periodo che chiude l’inverno e precede di poco la primavera, fino a quelle indossate durante i Lupercali e i Saturnalia a Roma, fino ai carri di carnevale con le maschere che nelle commedia dell’arte del XVII secolo diventano simboli delle regioni a cui appartengono, fino ai giorni nostri.

Maschere di cartone, come scriveva Xavier Forneret, che “al tempo di Carnevale l’uomo indossa sulla sua maschera abituale”. Il tempo del carnevale, che cade sempre nel mese di febbraio, è tempo di cesura fra una stagione fredda e improduttiva e l’inizio della primavera, cioè della rinascita della terra: periodo che segna un passaggio aperto, una specie di apertura tra le divinità di sotto e il mondo di sopra. Dunque, una sostanziosa relazione tra l’uomo e il destino che lo accompagna: periodo in cui si onoravano le anime e divinità ctonie utilizzando, per ingraziarsele e per garantire la fertilità e la produttività del suolo, proprio le maschere, che diventano il tramite per scongiurare ed esorcizzare il male. L’utilizzo di una maschera che nasconde i tratti del volto permette le più ampie trasgressioni da un lato e dall’altro aveva il potere di allontanare gli spirti maligni con la risata o il ghigno anche se fittizio. Ben più dunque di una semplice sfilata di mascherine come avviene al giorno d’oggi, ben più di una semplice sfilata di carri allegorici, i cui cortei, introdotti a Firenze da Lorenzo de’ Medici, venivano accompagnati dai cosiddetti canti carnescialeschi, di cui proprio Lorenzo fu autore.

Il tempo di Carnevale era un tempo in cui il disordine dionisiaco prendeva il sopravvento sull’ordine apollineo (per citare Nietzshe e “La nascita della tragedia in Grecia”): periodo in cui si invertono i canoni, il sopra diventa sotto e viceversa, in una sorta di tavola smaragdina dove l’illecito diventa lecito e dove persino gli schiavi possono permettersi di farsi servire dai padroni e persino di bastonarli. Giorni del vino e del caos, delle grida disordinate, dell’estasi, del travestimento spesso femminile, celebrati dai Lupercali romani, feste in cui giovani sacerdoti con il volto coperto da maschere di fango correvano muniti di sottili strisce di cuoi chiamate februae. Proprio dalla forma delle februae derivano i dolci tipici di questo periodo, chiamate frappe o chiacchere a seconda delle regioni, che riprendono l’aspetto delle sottili strisce di cuoio. Essere colpiti da una februa era di buon auspicio perché si credeva che portasse in dono la fertilità secondo un rito pagano che rimase vivo fino alla fine del V secolo d.C, nonostante editti e ordinanze repressive. E sono state ordinanze ed editti che hanno “regolato” il Carnevale così come lo conosciamo oggi, legandolo a manifestazioni colorate e rumorose che molto spesso si concludono con la morte del Re burlone, un fantoccio che rappresenta da un lato, nei giorni di festa, un lontano ricordo della mitica età dell’oro e un mondo di cuccagna appena sfiorato e che, dall’altro, alla sera del martedì grasso viene bruciato come capro espiatorio per allontanare tutti i mali dell’anno trascorso.

Un ultimo cenno alle tradizioni culinarie della mia terra, dove ancora l’usanza di festeggiare la domenica di Carnevale è viva e prevede un menù a base esclusivamente di ragù di carne di maiale, ravioli di ricotta dolci e salati, tagliatelle all’uovo, sfoglio (sottili strisce di pasta avvolte fino a formare un cilindro che, tagliato in mezzo, viene farcito con ricotta, salsiccia e caciocavallo stagionato) e, dulcis in fundo, (per chi sopravvive, ovviamente) il cannolo di ricotta rigorosamente di pecora, cioè, per citare Cicerone che già ne fa menzione, un “tubus farinarius dulcissimo edulio ex lacte fartus”, con buona pace delle monache di clausura e delle donne arabe degli harem siciliani a cui se ne attribuisce, secoli dopo, la paternità.

Adriana Antoci