Fichi d’India: nota esotica sulle piccole Opunzie

Fin da bimbo sono stato attratto da questa insolita pianta grassa dalle foglie simili alle orecchie di topo gigio, presente sulle rupi della bellissima pieve romanica dedicata a San Siro, vescovo di Pavia e protettore della Valle Camonica. Anche da lontano, le grassocce foglie, munite di aculei spinosi attirano l’attenzione come una presenza estranea alla flora locale, composta particolarmente da specie abituate a vivere sulle rupi, dove la disponibilità d’acqua e nutrienti molto è scarsa. In primavera i fiori gialli e profumati, e i frutti di un bel colore rosso, contrastano con il colore grigio della pietra arenaria e le danno una gradevole nota di allegria.

Ma veniamo alla storia particolarmente curiosa di questa piccola pianta grassa, infatti viene riportata con gran confusione nei primi libri di flora erboristica. Nella seconda metà del 1500, il valente botanico senese Pierandrea Matthioli, medico del Pricipe Vescovo di Trento Bernardo Cles, pur scrivendo che il Fico Indiano: “… s’è portato ai nostri tempi dalle indie occidentali …”, sostiene, sbagliando, di poterla identificare con l’Opuntia citata dal medico romano Plinio il Vecchio nella sua Naturalis Historia. Opuntia inoltre deriva dagli Opunzi, antichi abitatori della Locride la cui capitale era Opunte.

L’errore nasce dal fatto che tutti i Fichi d’India che crescono in Europa e in special modo sulle rive del Mediterraneo, provengono dall’America Centrale, importati quindi dopo la scoperta dell’America, dove erano utilizzati dalle popolazioni locali sia per alimento che per cosmesi. Dal frutto di alcuni di essi viene prelevato il colore rosso, in diverse tonalità, utile per colorare le labbra. Il mio compianto amico Arturo Crescini, maestro e divulgatore, in un suo libro di quasi quarant’anni fa, riporta inoltre questa curisosa notizia rinvenuta nel “Sumario de la natural y general historia de los Indias”, vergata dal cronista Gonzalo Fernando de Oviedo e pubblicata a Toledo 1526. Lo storico spagnolo racconta dello sgomento di cui fu vittima, quando nel 1515 a Hispaniola (l’attuale Haiti), personalmente fece conoscenza con le tunas, nome indigeno dei frutti dei Fichi d’India. Ingolositosi vedendo i compagni appetire avidamente quei frutti, dopo non poche esitazioni decise di imitarli, e fin qui nulla di strano. Probabilmennte il cronista spagnolo convenì sulla commestibilità del frutto esotico, ignaro che il succo attraversa l’organismo senza danni, ma conserva la sua colorazione porporina, di modo che, al momento di rendere il … liquido organico, avvedendosi della sua rossa colorazione, impallidì terrorizzato, certo che i vasi sanguigni stessero del loro contenuto.

I Fichi d’India che crescono sulle rupi della Pieve e in località Seradina sono di dimensioni molto più piccole di quelli che si incontrano in Messico, in Calabria o in Sicilia, ma non perché stanchi per il lungo viaggio fino ai nostri monti, ma in quanto appartengono a una delle numerose specie appartenenti al genere Opuntia. Il nostro piccolo Fico d’India era fino a pochi anni fa conosciuto con il nome scientifico di Opuntia compressa, che ben ne interpretava la ridotta grandezza rispetto ai cugini più prestanti. Da qualche anno il corretto nume scientifico è Opuntia humifusa, dove “humifusa” sta per: “sparsa per terra”. Le sue foglie, rigonfie d’acqua, accumulata con le prime piogge primaverili, hanno la capacità di avere una traspirazione lentissima, soprattutto nei siti rupestri. In tardo autunno, tutta la pianta sembra incartapecorire e l’acqua contenuta nei suoi tessuti se ne evapora. Ma nulla è perduto e questa provvidenziale perdita di liquidi permette ai nostri Fichi d’India di affrontare l’inverno e le sue gelate e quindi rinvigorire nella successiva primavera.

Per quanto riguarda l’appetibilità dei nostri “Fichi” locali, non possono certo competere con i frutti che crescono sulle coste mediterranee, anche se, da bambino confesso di averli assaggiati e di averli trovati di sapore gradevole… peccato davvero che le piccolissime e quasi invisibili spine. Restano conficcate fastidiosamente nelle dita per parecchi giorni.

Enzo Bona