E’ successo solo un mese fa a Rebibbia, il carcere romano, dove una detenuta di 23 anni ha partorito la sua quarta figlia in una cella, assistita solo dalla sua compagna. Il medico di Rebibbia, allertato dalle guardie che avevano sentito le grida, è arrivato a cose fatte, quando la bambina era già nata. E se da un lato la vita come al solito si dimostra più forte di tutto tanto da spuntare dove meno ce l’aspettiamo, anche tra le sbarre, dall’altro un parto per quanto sia un evento naturale ha necessità di assistenza medica. Tra l’altro, la giovane detenuta solo un mese prima era stata ricoverata all’ospedale Pertini per una minaccia d’aborto, ma una volta rientrato l’allarme era tornata nella sua cella rebibbiese. Da luglio era stata accusata di furto e quindi incarcerata, nonostante fosse in un avanzato stato di gravidanza. La giovane italiana, di origine bosniache viveva in un campo rom con il compagno. Dopo il parto la 23enne è stata liberata in attesa di processo.
E anche se il ministro della Giustizia, Marta Cartabia ha inviato alcuni ispettori nel carcere per acquisire elementi sull’accaduto il fatto rimane e non è nemmeno un episodio isolato. E’ chiaro che tutto è bene quel che finisce bene e la giovane è in buone condizioni di salute come la piccola. Ma era suo diritto avere un’assistenza adeguata anche se non era al suo primo figlio. La cosa che più sconcerta è che in casi del genere non ci sia nessuno disposto ad assumersi la responsabilità dell’accaduto e anche per la ragazza è successo che l’Amministrazione penitenziaria abbia in un certo senso giocato a rimpiattino con il Ministero e viceversa. Tra l’altro la donna ad agosto aveva presentato istanza di revoca o sostituzione della misura cautelare, ma l’Autorità giudiziaria aveva comunicato che si riservava di decidere. Purtroppo però in eventi del genere non c’è molto tempo e la Natura non aspetta e non si adatta alle lungaggini amministrative e giudiziarie.
Questo dovrebbe far riflettere tutti, ma soprattutto chi di dovere visto che da tempo il sindacato della polizia penitenziaria ha lanciato la campagna “Nessun bambino in cella”. Purtroppo per quanto il numero dei bambini presenti nelle carceri si sia dimezzato, il risultato non è ancora da considerarsi soddisfacente. Anche perché come lo stesso sindacato fa notare c’è un totale disinteresse istituzionale e della Politica per i problemi del sistema giudiziario. Nelle carceri italiane ci sono 22 detenute madri che sono nelle sezioni nido degli Istituti e 25 minori, così come si evince dai dati forniti dal Ministero della Giustizia. Bambini che vivono in celle e che pagano le colpe dei genitori ma che sono il simbolo della sconfitta dell’intero sistema nel quale abbiamo scelto di vivere. In altre parole un fallimento per tutti noi che ci dichiariamo evoluti e che nel 2021 non siamo in grado di garantire assistenza medica a chi ne ha bisogno, nonostante abbia contravvenuto alle regole della società macchiandosi di un crimine.
Dovremo anche imparare a fare i giusti distinguo nella gravità di un crimine: esistono crimini molto più gravi di un furto. Senza dimenticare che secondo una legge di 10 anni fa, le madri condannate che devono scontare una pena non superiore ai 4 anni, avrebbero dovuto partorire in “case famiglia protette”. Ma in realtà ad oggi esiste solo una di queste case. L’ennesima contraddizione di un paese che ne vive tantissime e che non può applicare una legge per mancanza di strutture adeguate.