La Contea di Modica e il cibo (prima parte)

“Rimmi chi manci e ti ricu cu sì”—Dimmi cosa mangi e ti dirò chi sei”( nel dialetto siciliano non esistono verbi declinati al futuro n.d.r.).

Acuta osservatrice delle tradizioni popolari qual’era, Ester La Rocca ha compreso come la cucina della Contea fosse una vera e propria arte della quale era depositario e nello stesso tempo attore, il popolo. Ne era anche partecipe lei stessa perché nella sua famiglia si seguivano quelle tradizioni che ci ha tramandato nel suo libro, unica donna del suo tempo a comprendere che l’anima di un popolo è anche questo. Non poteva quindi mancare nel suo volume un ricco capitolo dedicato alle pietanze di tutti i giorni e a quelle cucinate in occasioni particolari, accompagnate dall’arguta osservazione che i signori della contea chiamavano pudicamente “devozioni” questi ricchi piatti , per non essere tacciati di “ghiottoni” come capitava ai signori milanesi che potevano approfittare di tutti quei generi di cibi da “ sport” ( testuale! n.d.r.) che rallegrano la vita.

Annota che la cura maggiore di una fanciulla casalinga, che poi diventerà una buona “donna di casa”, è riposta nell’apprendimento e poi nella manipolazione di questi piatti per il desco familiare,.

Dice l’autrice che queste donne sono “misoneiste” e non accettano nuove vivande, perchè fortemente legate ai piatti tradizionali le cui ricette, apprese dalle nonne, dalle mamme, dalle suocere e spesso dalle “casare” (donna che rimaneva a casa fino alla morte) conservano gelosamente.

Lo straordinario patrimonio eno-gastronomico della Contea e di tutta la Sicilia si è conservato in questo modo: trasmesso oralmente ma anche con ricette e modi di preparazione appuntati su quaderni di cui ogni famiglia importante ne possedeva uno.

Non esistendo all’epoca panifici e forni a cui potersi rivolgere, pane e pasta venivano confezionati in casa dalle donne di ogni ceto e condizione sociale. Ovviamente le nobili e ricche famiglie avevano le persone di servizio che provvedevano alla bisogna, e sovente queste donne, prese in casa da giovanissime, erano considerate e trattate come membri della famiglia. Le signore conservavano l’antichissima abitudine di prenderle sotto la loro protezione, mantenerle e vestirle senza alcun salario, sino al giorno in cui si fossero sposate. Le chiamavano “figlie di sante” e avrebbero avuto una casa di maritaggio o una dote. A Ibla case di maritaggio sono quelle di Viale Margherita di fronte al Giardino Ibleo.

Il giorno deputato per fare il pane era il sabato, perchè terminavano i lavori della settimana e la sera si tornava a casa dai lavori della campagna.

L’usanza più antica della contea, che si perde nella notte dei tempi, era l’occupazione ( e la preoccupazione) di ogni massaia di fare pane e pasta che richiedevano una lunga e minuziosa preparazione. Per primo mondare il frumento, che poi veniva mandato al mulino e da cui tornava la farina allo stato grezzo, poi setacciarla al crivello per dividere il fiore dalla crusca.

Tutte le donne di casa erano poi impegnate per la fase finale: chi impastava la farina nello “ scanniaturi” rigorosamente con “lievito madre” diluito in acqua, chi ne tagliava pezzi ben calibrati e confezionava le varie forme per farlo lievitare coperto da lenzuola e panni ( mettiri u pani o liettu- mettere il pane a letto!) , chi ardeva il forno a pietra con sarmenti ( per lo più spine selvatiche nate nei terreni incolti) e chi preparava “scacce”,(1) costituite da un foglio di pasta, ripiegato più volte su sé stesso al cui interno si mettevano diversissimi condimenti; nei tempi più antichi il loro ripieno era di prezzemolo con filetti di acciughe salate, o di ricotta con prezzemolo, con cipolla, con porri o con salsiccia. Con l’arrivo del pomodoro che a metà dell’800’cominciava ad essere coltivato anche in questa parte della Sicilia nelle fiumare e nelle zone di mare, la scaccia più comune diventò quella con salsa di pomodoro, basilico, olio e formaggio.

Contemporaneamente si preparavano i “pasticci”,contenitori di pasta di pane rotondi od ovali ripieni delle pietanze più disparate, chiusi con un coperchio della stessa pasta attaccato ai bordi con un ingegnoso intreccio tra fondo e copertura. Anche questi venivano cotti nel forno.

In tutto il paese il sabato sera aleggiava l’odore sprigionato dal pane caldo e da queste delizie, gradite a nobili e popolani, a grandi e piccini.

Il pane doveva servire per tutta la settimana ed era conservato in grandi cesti di forma rotonda od ovale con coperchio, ottenute con l’intreccio del fusto del frumento ingegnosamente cucito con spago: poche persone riuscivano ad ottenere forme perfette e grandi formati.

Alla preparazione del pane e dei pasticci, si associava quella della pasta. Ottenuto l’impasto solo con farina e acqua, o con l’aggiunta di uova fresche, si tirava la foglia di pasta( “pinna”) a mano sino a ottenere lo spessore desiderato e poi si tagliava per ottenere tagliatelle di varia larghezza, o pasta corta per le minestre. Per ottenere i maccheroncini corti rigati, la tagliatella tagliata a tocchetti veniva avvolta su un supporto rigido del diametro desiderato e poi veniva passata su un pettine (4) che lasciava l’impronta. Il pettine è formato da una successione di canne legate di taglio a due bacchette della stessa canna , distanziate di mezzo centimetro. Queste paste venivano consumate fresche, e preparate in gran quantità lasciate asciugare in grandi canestri confezionati come le ceste per il pane.

Andrea Ottaviano

*le immagini dei prodotti da forno per gentile concessione del Panificio La Rosa di Via Galvani Ragusa