Morgana e Artù: from Sicily with love

Dalle nebbie caliginose dell’isola di Avalon fino al fuoco incandescente della lava dell’Etna, dall’incanto del castello di Camelot ai profumi di aranci e gelsomini in Sicilia. Che questa terra sospesa tra cielo e mare sia stata da sempre luogo di leggende e di miti, è cosa risaputa. Ma in quest’isola ci sono stati i Greci e poi c’è la Sicilia, la terra dei Sicani, dove retaggi arcaici e ancestrali si mescolano e fondono con la storia di conquiste. E ogni conquista porta con sé altri miti e leggende rielaborati e divenuti patrimonio sociale e culturale, tesoro tramandato oralmente arrivato fino ai giorni nostri, che raccontano di una misteriosa Atlantide, di una fata e di un re, di una spada e di un incantesimo. Andiamo con ordine: i tre chilometri o poco più che separano la Sicilia dalla Calabria sono stati il terreno fertile per la nascita di racconti variopinti e variegati: la forza delle correnti che attraversano lo Stretto di Messina e i venti che possono anche raggiungere i nove chilometri orari sono stati sempre temuti dai naviganti e dai marinai.

Da Omero che, nel dodicesimo libro dell’Odissea, racconta dell’incontro di Ulisse con Scilla e Cariddi, passando per Peloro, il capitano della nave di Annibale, ucciso da quest’ultimo perché si ritenne ingannato dal suo marinaio che insisteva nel dire che esisteva davvero un passaggio tra le due terre. Annibale non gli credette fino a quando non se ne accorse anche lui, ma ormai era troppo tardi e il condottiero cartaginese, per fare ammenda, gli intitolò l’estremo capo della Sicilia nord-orientale, facendo erigere là una statua che servisse da segnale ai naviganti. Di questa stretta lingua di mare, le cui forti correnti fanno mutare continuamente la conformazione delle spiagge, hanno raccontato anche Ovidio nelle Metamorfosi, Tucidide nella sua Guerra del Peloponneso, e Virgilio nell’Eneide e Strabone nella sua Geografia. Ma un’altra leggenda ancora più misteriosa e affascinante vive tra queste terre e rievoca il mito di Atlantide. Dove adesso è ben visibile il lago di Ganzirri, esisteva una città ricchissima per il commercio, crocevia di scambi culturali, che prendeva il nome dalla sua principessa, Risa.

Guzzo

Questa città sprofondò nel mare, proprio come la mitica Atlantide, in seguito ad un terribile cataclisma e nell’enorme depressione che era rimasta piano piano la pioggia e altri agenti naturali formarono il lago di Ganzirri. Della ricchezza e delle bellezze architettoniche di Risa non rimase nulla, ma gli anziani raccontano che nelle giornate limpide si possono scorgere ancora i resti delle colonne e le architravi dei palazzi e ricordano anche che, quando si sente suonare la campana di Risa “è megghiu nun pigghiari ppi fora”, è meglio non uscire di casa perché si avvicina una burrasca. Ma la leggenda non si ferma qui. Nella stratificazione di culture di questa terra una parte notevole riguarda la conquista da parte dei Normanni, uomini del Nord venuti nell’isola del sole dalla Normandia e dalle brume dell’antica isola di Britannia.

Ed è a questo punto che la mitologia celtica si innesta e si mescola con quella greca presente da secoli in questa terra e si riflette sullo stretto di Messina. La leggenda (in una delle sue tante varianti) narra che Artù, ferito gravemente in battaglia da Mordred, il figlio avuto dal rapporto incestuoso proprio con Morgana, sentendosi morire, chiese alla donna di essere trasportato in Sicilia, sull’Etna, dove avrebbe potuto riparare con la lava incandescente i monconi spezzati della sua Excalibur, la spada che lui stesso aveva estratto dalla roccia e riposare là per sempre dentro il vulcano. E lei, su una nave d’argento con le vele dorate salpò dall’isola di Avalon, attraversò l’Atlantico e il Mediterraneo e giunse in Sicilia, fino alla falde dell’Etna, dove Artù rinsaldò i monconi della sua arma e ritemprato dalla forza misteriosa che emana il vulcano, costruì la sua dimora dove nessun uomo può morire. Da allora il re Artù vive in un meraviglioso palazzo dentro il vulcano, dal quale esce solo per portare le arance ai bambini inglesi, in un legame tanto delicato quanto forte destinato a non spezzarsi e a unire due civiltà diversissime fra loro. Quando questo accade, l’Etna trema ed erutta.

Le prime notizie circa la presenza di Artù in Sicilia ci arrivano dagli scritti di Gervaso da Tilbury, che racconta: «In Sicilia è il monte Etna, ardente d’incendii sulfurei, e prossimo alla città di Catania, ove si mostra il tesoro del gloriosissimo corpo di Sant’Agata vergine e martire, preservatrice di essa. Volgarmente quel monte dicesi Mongibello; e narran gli abitatori essere apparso ai dì nostri, fra le sue balze deserte, il grande Artùro». Questa narrazione è ripresa ed ampliata da Arturo Graf nel suo saggio “Miti, leggende e superstizioni del Medio Evo” edizioni Mondadori.
Ma il legame d’amore con la sorella Morgana non poteva interrompersi ed ecco che anche lei rimase in questa terra di Sicilia, legando la sua presenza ad un palazzo di cristallo costruito in fondo alla Stretto, proprio dove era sprofondata la città di Risa, e dal quale emerge per custodire e vegliare su Artù e per ingannare i marinai e i naviganti che si avventurano in quello specchio di mare, nascondendo o avvicinando le due rive n modo che chi vi si trova a passare non riesca a raggiungere facilmente le coste della Calabria.

L’illusione ottica conosciuta come effetto “fata Morgana”

Morgana: amante, madre, sorella, donna ingannatrice come le majare, retaggio della tradizione popolare siciliana o come le donne di fuora, belle signore che escono di casa la notte, o le dragunare, cioè donne di vento e di tempesta. (Ancora oggi quando si vuole indicare un vortice di tempesta si utilizza questa locuzione, come cita Serafino Amabile Guastella nel suo “Vestru”. Chi scrive ricorda bene la sua bisnonna che, recitando tutta una serie di formule, tagliava letteralmente con una forbicina da ricamo le tempeste vorticose che sul finire dell’estate compaiono tra le isole Eolie e che si vedono risalire ingrossandosi lungo la costa). In realtà, il fenomeno ottico della fata Morgana, cioè fata delle acque in celtico, è legato alla curvatura dei raggi di luce originata dal loro passaggio attraverso strati d’aria a temperature differenti o quando si registra un improvviso gradiente termico. E allora, le minuscole goccioline di acqua presenti nell’aria fungono da lente di ingrandimento specchiando il paesaggio siciliano nel cielo della Calabria. Ma la fredda spiegazione scientifica nulla toglie alla leggenda: alla fine rimane la fantasia, ingrediente di tante storie, e solo quella rimane perché rende vivi e presenti maghe e re, fate e streghe, spade e fuoco, tempeste e vulcani, città sprofondate e campane che suonano. Lo sapeva bene un grande poeta italiano, che visse e insegnò a Messina e che di questa terra e dei suoi retaggi si innamorò. Parliamo di Giovanni Pascoli, ma questa è un’altra storia.

Adriana Antoci