“Non sono cattivi, li disegnano così” è questo il titolo del saggio sul cinema di animazione di Luca D’Albis che entra così a pieno diritto nella famiglia della Placebook Publishing & Writer Agency. Da sempre appassionato di cinema, D’Abis si è laureato all Iulm di Milano in Televisione, Cinema e new Media e da tempo collabora con la rivista di cinema 8 e ½. Lo abbiamo intervistato per i lettori di Kukaos.
Come hai scelto il titolo del tuo libro?
L’ho scelto prima di tutto perché è un rimando diretto ed esplicito alla celeberrima battuta «non sono cattiva, è che mi disegnano così», pronunciata dal sensuale personaggio di Jessica Rabbit in Chi ha incastrato Roger Rabbit, film dall’importanza fondamentale all’interno del saggio. In secondo luogo, perché lo reputo un buon titolo, in grado di sintetizzare in poche parole il focus del libro.
Perché un saggio sui film d’animazione?
Prima di tutto perché da sempre nutro un’immensa passione per l’arte dell’animazione. Un amore tale da non limitarmi alla semplice fruizione di film e serie ma anche alla volontà d’indagare e approfondire più attivamente questo mondo, dal punto di vista produttivo, storico ed estetico. Inoltre, sono ormai parecchi anni che lo studio dell’animazione è stato sdoganato, anche negli ambienti accademici, diventando argomento di ricerche e corsi universitari. Quindi, tenendo conto che il cinema animato per adulti americano degli anni Settanta non era ancora stato oggetto di analisi in un testo dedicato, mi sono detto perché non provare a mettermi in gioco e a scriverlo io. Ho così ripreso la mia vecchia tesi di laurea e durante la pandemia ci ho rimesso mano, traendone un saggio più strutturato.
Cosa intendi quando parli di Rinascimento Hollywoodiano?
Il Rinascimento Hollywoodiano è quel periodo a cavallo tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta caratterizzato da profondi mutamenti in seno all’industria del cinema americano. Sull’onda delle numerose correnti che, già a partire dalla fine degli anni Cinquanta, hanno fatto la loro comparsa in molti Paesi del mondo, prima fra tutte la Nouvelle Vague francese, unito al clima di fermento politico e sociale che gli Stati Uniti stavano vivendo, anche Hollywood venne investita da un’aria di rinnovamento. Il cinema classico, quello dei grandi Studi, che detenevano l’assoluto controllo su tutta la filiera industriale dei film, dalla produzione, alla distribuzione, fino all’esercizio delle sale, venne meno, lasciando spazio alla modernità. Certi tabù ideologici vennero abbattuti e certi schemi ormai obsoleti vennero abbandonati in favore di un linguaggio più fresco. Tale cambiamento ha consentito a una nuova generazione di cineasti di emergere, assumendo un ruolo di primo piano, in linea con la “Teoria degli autori”, secondo cui è il regista il vero autore dietro la realizzazione di un film.
E perché per te i film d’animazione appartengono a questo genere?
Beh, non si può parlare tanto di genere, quanto più di una corrente cinematografica. Un movimento tra l’altro emerso più sul piano intellettuale che effettivo, essendo nato non attraverso la redazione di un manifesto da parte degli autori, come avvenuto in altri Paesi, bensì dalle pagine della stampa, tramite gli articoli di diversi critici dell’epoca, come Pauline Kael, i quali hanno registrato un sostanziale cambio di tendenza all’interno dell’industria hollywoodiana. In ogni caso, l’appartenenza del filone del cinema d’animazione da me trattato al Rinascimento Hollywoodiano e, più in generale, alla New Hollywood, è a mio parere giustificata da elementi stilistici, tematici e figurativi che combaciano nelle due produzioni e che, all’interno del saggio, ho avuto modo di approfondire e di analizzare nel dettaglio.
Come vedi il futuro del cinema d’animazione?
È difficile rispondere. Stiamo vivendo un periodo caratterizzato da numerosi cambiamenti, emersi in particolare in seguito a quello shock collettivo che è stato la pandemia, e tutto è ancora in divenire. Di sicuro l’interesse nei confronti dell’animazione non è mai stato così forte. Ogni anno, soprattutto sul piano seriale, escono numerose opere di qualità per ogni target, dal bambino in età prescolare all’adulto. Dai tanti film e serie provenienti dal Giappone alle produzioni americane, ognuno può trovare ciò che più gli piace, dando vita, talvolta, a fandom nutriti e affezionati. Detto ciò, è sotto gli occhi di tutti il fatto che il pubblico si sia gradualmente disinnamorato della sala e i film, che non siano grandi blockbuster, appartenenti a qualche franchise di richiamo, faticano a registrate incassi significativi al botteghino. Ciò vale tanto per il cinema dal vero quanto per l’animazione che, al di là di quel rullo compressore che è la saga dei Minions, non riesce più ad avere successo come in passato e persino colossi come la Pixar o i Walt Disney Animation Studios, da questo punto di vista, stanno soffrendo.
E il passaggio dalla visione in sala alle piattaforme streaming?
Di sicuro si può parlare di una vera e propria Golden Age delle piattaforme streaming. Ormai, quasi ogni Major possiede un proprio portale dove caricare film e serie di sua proprietà o produzioni originali. Tuttavia, una crescita così veloce e repentina, sta portando a un conseguente intasamento ed essere iscritto a tutte o anche solo a buona parte delle realtà presenti sul mercato comincia a risultare troppo dispendioso per le tasche dello spettatore, obbligandolo inevitabilmente a scegliere. Ciò costringe le Major a intervenire sulle proprie offerte. E così che Netflix, per esempio, da leader assoluta del settore, è arrivata al punto di dover introdurre a breve un abbonamento che includerà inserti pubblicitari. Personalmente, ritengo che il cinema come luogo rimanga ancora lo spazio principale dove fruire della visione di un film, non solo per l’esperienza collettiva e per l’atmosfera che solo il grande schermo e il buio della sala riescono a restituire, ma anche perché il risalto che la proiezione cinematografica riesce a dare alla pellicola è immensamente maggiore. In streaming i film, anche quelli diretti da grandi nomi, finiscono per essere niente più che una delle centinaia di proposte selezionate per te da un algoritmo. Inoltre, tutta la filiera che prima costituiva il percorso di un film e che era fonte di introiti, dai cartelloni dei cinema, all’home video, fino alla vendita alle reti televisive, viene meno e le stesse piattaforme cominciano ad accorgersene. La mia speranza è che in futuro si arrivi a un punto di contatto tra le due realtà, un compromesso in grado di dare origine a un’ibridazione che vada incontro agli interessi di entrambe.
Parlaci un po’ di te, chi è Luca d’Albis?
Luca D’Albis è una persona che da sempre ha nutrito una grande passione per il cinema. Fin da ragazzino ho percepito una profonda fascinazione per le immagini in movimento, interesse che, crescendo, non ha fatto altro che aumentare, portandomi a voler approfondire i processi dietro la loro realizzazione, in particolare attraverso la lettura di numerosi saggi sul tema. Tale è stata la volontà di sapere di più su questo mondo, da condizionare il mio percorso formativo. Infatti, nel 2019 mi sono laureato in “Televisione, Cinema e new media” presso l’università IULM di Milano e da allora ho cercato di coltivare ulteriormente questo mio interesse prendendo parte a progetti di ricerca promossi dall’ateneo e scrivendo diversi saggi sul cinema.
Com’è nata la tua passione per la scrittura?
La passione per la scrittura nasce parallelamente a quella per il cinema ed emerge dall’esigenza di voler riportare su foglio idee e pensieri che emergono durante la visione di un film. La pellicola diventa una fonte da cui attingere per realizzare qualcosa di nuovo e personale.
Tu collabori con alcune riviste, qual è la differenza tra scrivere un articolo e un saggio?
Penso che le differenze sostanziali tra la scrittura di un articolo e la scrittura di un saggio siano la lunghezza e l’impostazione. In un articolo sei obbligato a rispettare un numero massimo di caratteri e, conseguentemente, devi riuscire a sintetizzare il tuo pensiero in un certo numero di righe. Inoltre, in un articolo devi attenerti a un’impostazione di natura giornalistica. In un saggio, invece, hai maggiori margini di manovra, riuscendo a imbastire un’argomentazione più articolata. Inoltre, rispetto a un articolo, in un saggio c’è la possibilità di ampliare il tuo discorso, avendo modo, attraverso la suddivisione in paragrafi, di indagare più nel dettaglio un determinato argomento.
Progetti futuri?
Attualmente sto lavorando all’elaborazione di un altro saggio sull’animazione. Sono ancora alle prime fasi, quindi è ancora tutto un work in progress, in ogni caso vi terrò aggiornati.
Bianca Folino