Feste religiose e occasioni particolari erano il pretesto per la preparazione dei piatti tradizionali, comuni a tutte le famiglie con piccole variazioni negli ingredienti.
Nel giorno di San Martino il padrone di casa spillava il vino nuovo dalle botti e la padrona di casa preparava il gallinaccio ( tacchino) ripieno di maccheroncini conditi con polpettine di carne fritte mescolate a âcarne sfusiataâ( tritato di vitello asciugato in padella con vino e un goccio dâolio) e a pezzi di un succulento lacerto rosolato con la cipolla. A tavola arrivavano poi â le cuddureddeâ. Il piatto è composto da strisce di pasta di varia dimensione con i bordi sfrangiati accompagnati da barchette della stessa pasta riempite di âpasta realeâ(mandorle tritate o lavorate finemente al mortaio mescolate con zucchero, una punta di miele per amalgamare lâimpasto e aromatizzate con scorza di limone grattugiata); veniva poi bollito nel mosto cotto giĂ preparato al tempo della vendemmia, e servito freddo: una vera leccornia che molte famiglie preparano anche oggi. La festa di Bacco da sfrenato baccanale trasformata in squisitezza culinaria, in ossequio al proverbio â tutti i Santi finiscono in gloria!â.

La notte di Natale non potevano mancare le celebri anguille dellâIrminio, (delle quali oggi abbiamo solo il ricordo) cucinate a spezzatino, e il pasticcio di tonno sottâolio con finocchio, olive e pomodori dâinverno (una varietĂ di pomodorini a grappolo che si appendevano in cucina e si lasciavano appassire). A mezzogiorno il brodo con tagliolini era seguito dalla gallina lessa accompagnata da verdure selvatiche e broccoli , e a conclusione una quantitĂ di dolci fatti in casa.
Arrivava carnevale, e si dava mano al piĂš sontuoso piatto che si possa immaginare: timballo al forno di maccheroncini grondanti stufato, con frattaglie di pollo, salsiccia a pezzi, polpettine fritte di manzo e maiale, e ricotta fresca a strati per separare (si fa per dire!) i vari condimenti. Nei tre ultimi giorni di carnevale, âsdirri luni, sdirri marti e sdirri miercuriâ(-sdirri- storpiatura dialettale del francese dernier, retaggio linguistico della dominazione angioina della Sicilia), si mangiava di tutto, ma per la cena dellâultimo giorno erano dâobbligo i maccheroni al sugo che si consumavano rigorosamente, prima di entrare in Quaresima; sarebbero seguiti 40 giorni di legumi, verdure, pesce salato; si sarebbero consumate alici e sarde sotto sale conservate in grandi botti di legno dalle quali venivano prelevate ad una ad una con uno speciale arnese a punta piatta simile ad un cacciavite, assieme allo strapopolare baccalĂ , venduto a pochi soldi , oggi di ânicchiaâ e a caro prezzo, assieme a scacce e pasticci â di magroâ, ma per questo non meno appetitosi.

A Pasqua erano (e sono) le âmpanateâ, pasticci di carne dâagnello , mescolata a pezzi di lardo e di pancetta condite con prezzemolo e pepe nero, a dominare la scena culinaria; venivano infornate e lasciate dentro il forno sino a quando non si intiepidivano: ne derivava uno stracotto di gusto deciso e di non facile digestione. Una di esse, dentro la quale venivano messe le ossa spolpate con attaccati piccoli pezzi di carne, aveva un nome particolareâ santa casciaâ (santa cassa, nome popolare dato alla grande arca reliquaria di San Giorgio contenente un gran numero di ossa di Santi âaccostamento irriverente ma efficace).
Altra prelibatezza erano i âturciniunaâ, involtini di interiora di agnello con un filo di cipolla novella avvolti nella âcaliaâ ( il peritoneo a rete ), attorno ai quali veniva attorcigliato piĂš volte il budello e cotti in tegame con cipolla e il grasso che colava dallâintruglio.
Per finire la dolce cassata di ricotta speziata con cannella, e arricchita con pezzettini di cioccolata di Modica.
Dopo Pasqua entravano in scena le feste patronali, giudiziosamente collocate nel periodo estivo; ogni paese aveva la sua, ma vi era una tradizione comune: i devoti del Santo e le monache, chiuse nei loro monasteri di clausura, confezionavano dei grandissimi buccellati di pane di forma circolare che venivano benedetti e portati dietro il Santo su apposite barelle. Durante la processione i sacerdoti li tagliavano a pezzi e li regalavano agli uomini di campagna che li suddividevano in pezzettini e li davano agli uccelli che li portavano nei campi che cosĂŹ ricevevano la benedizione del cielo per i loro raccolti. Si ripeteva incosciamente il millenario rito della dea Cerere per la benedizione dei campi.

Tutti questi piatti tradizionali, retaggio dellâavvicendarsi in Sicilia delle varie dominazioni dagli Arabi ai Normanni, dai Bizantini agli Spagnoli, si fanno anche oggi e costituiscono una delle piĂš grandi ricchezze della nostra terra.
Con la festa patronale lâanno era finito, e si andava in villeggiatura nelle grandi case di campagna, in attesa di ricominciare, a ottobre, con il ritorno in cittĂ , un nuovo anno e la vita di sempre, immutabile, scandita solo dallo scorrere inesorabile delle stagioni.
Andrea Ottaviano