La Contea di Modica e il cibo (seconda parte)

Feste religiose e occasioni particolari erano il pretesto per la preparazione dei piatti tradizionali, comuni a tutte le famiglie con piccole variazioni negli ingredienti.

Nel giorno di San Martino il padrone di casa spillava il vino nuovo dalle botti e la padrona di casa preparava il gallinaccio ( tacchino) ripieno di maccheroncini conditi con polpettine di carne fritte mescolate a “carne sfusiata”( tritato di vitello asciugato in padella con vino e un goccio d’olio) e a pezzi di un succulento lacerto rosolato con la cipolla. A tavola arrivavano poi “ le cudduredde”. Il piatto è composto da strisce di pasta di varia dimensione con i bordi sfrangiati accompagnati da barchette della stessa pasta riempite di “pasta reale”(mandorle tritate o lavorate finemente al mortaio mescolate con zucchero, una punta di miele per amalgamare l’impasto e aromatizzate con scorza di limone grattugiata); veniva poi bollito nel mosto cotto già preparato al tempo della vendemmia, e servito freddo: una vera leccornia che molte famiglie preparano anche oggi. La festa di Bacco da sfrenato baccanale trasformata in squisitezza culinaria, in ossequio al proverbio “ tutti i Santi finiscono in gloria!”.

La notte di Natale non potevano mancare le celebri anguille dell’Irminio, (delle quali oggi abbiamo solo il ricordo) cucinate a spezzatino, e il pasticcio di tonno sott’olio con finocchio, olive e pomodori d’inverno (una varietà di pomodorini a grappolo che si appendevano in cucina e si lasciavano appassire). A mezzogiorno il brodo con tagliolini era seguito dalla gallina lessa accompagnata da verdure selvatiche e broccoli , e a conclusione una quantità di dolci fatti in casa.

Arrivava carnevale, e si dava mano al più sontuoso piatto che si possa immaginare: timballo al forno di maccheroncini grondanti stufato, con frattaglie di pollo, salsiccia a pezzi, polpettine fritte di manzo e maiale, e ricotta fresca a strati per separare (si fa per dire!) i vari condimenti. Nei tre ultimi giorni di carnevale, “sdirri luni, sdirri marti e sdirri miercuri”(-sdirri- storpiatura dialettale del francese dernier, retaggio linguistico della dominazione angioina della Sicilia), si mangiava di tutto, ma per la cena dell’ultimo giorno erano d’obbligo i maccheroni al sugo che si consumavano rigorosamente, prima di entrare in Quaresima; sarebbero seguiti 40 giorni di legumi, verdure, pesce salato; si sarebbero consumate alici e sarde sotto sale conservate in grandi botti di legno dalle quali venivano prelevate ad una ad una con uno speciale arnese a punta piatta simile ad un cacciavite, assieme allo strapopolare baccalà, venduto a pochi soldi , oggi di “nicchia” e a caro prezzo, assieme a scacce e pasticci “ di magro”, ma per questo non meno appetitosi.

A Pasqua erano (e sono) le “mpanate”, pasticci di carne d’agnello , mescolata a pezzi di lardo e di pancetta condite con prezzemolo e pepe nero, a dominare la scena culinaria; venivano infornate e lasciate dentro il forno sino a quando non si intiepidivano: ne derivava uno stracotto di gusto deciso e di non facile digestione. Una di esse, dentro la quale venivano messe le ossa spolpate con attaccati piccoli pezzi di carne, aveva un nome particolare” santa cascia” (santa cassa, nome popolare dato alla grande arca reliquaria di San Giorgio contenente un gran numero di ossa di Santi –accostamento irriverente ma efficace).

Altra prelibatezza erano i “turciniuna”, involtini di interiora di agnello con un filo di cipolla novella avvolti nella “calia” ( il peritoneo a rete ), attorno ai quali veniva attorcigliato più volte il budello e cotti in tegame con cipolla e il grasso che colava dall’intruglio.

Per finire la dolce cassata di ricotta speziata con cannella, e arricchita con pezzettini di cioccolata di Modica.

Dopo Pasqua entravano in scena le feste patronali, giudiziosamente collocate nel periodo estivo; ogni paese aveva la sua, ma vi era una tradizione comune: i devoti del Santo e le monache, chiuse nei loro monasteri di clausura, confezionavano dei grandissimi buccellati di pane di forma circolare che venivano benedetti e portati dietro il Santo su apposite barelle. Durante la processione i sacerdoti li tagliavano a pezzi e li regalavano agli uomini di campagna che li suddividevano in pezzettini e li davano agli uccelli che li portavano nei campi che così ricevevano la benedizione del cielo per i loro raccolti. Si ripeteva incosciamente il millenario rito della dea Cerere per la benedizione dei campi.

Tutti questi piatti tradizionali, retaggio dell’avvicendarsi in Sicilia delle varie dominazioni dagli Arabi ai Normanni, dai Bizantini agli Spagnoli, si fanno anche oggi e costituiscono una delle più grandi ricchezze della nostra terra.

Con la festa patronale l’anno era finito, e si andava in villeggiatura nelle grandi case di campagna, in attesa di ricominciare, a ottobre, con il ritorno in città, un nuovo anno e la vita di sempre, immutabile, scandita solo dallo scorrere inesorabile delle stagioni.

Andrea Ottaviano