Nelle varie visite agli orti alpini effettuate in questi ultimi tre anni, oltre ad aver incontrato persone straordinarie, ascoltato le loro considerazioni sulla cura dei vegetali, ho individuato alcune specie coltivate, per così dire, a macchia di leopardo.
Sono piante, inteso in senso botanico – quindi non alberi – conosciute per l’uso alimentare o medicinale fin dai tempi piĂą remoti. In questo breve scritto voglio parlarvi di una di loro, ossia del Rabarbaro.
Per dare una nota di amaro alla tavola è consigliabile riservare un ampio angolo dell’orto alla coltivazione del Rabarbaro (radix barbara). Le dimensioni che questa pianta, d’origini orientali, raggiunge consigliano di seminarla lontana da altre colture, infatti spesso supera il metro e mezzo di altezza, con grandi foglie basali variabili per forma e dimensioni a seconda delle numerose specie; queste presentano un picciolo lungo e carnoso con sezione trapezioidale che, privato dell’involucro esterno e filamentoso, si usa per preparare marmellate o sciroppi. Il Rabarbaro si riproduce con i semi che vanno piantati prima in un vasetto aspettando che, dopo quindici giorni, germino e producano delle tenere piantine da trapiantare in terra nuda senza particolari cure. Una piccola nota pratica: se desiderate che le foglie, quindi i piccioli, raggiungano dimensioni considerevoli, ricordatevi di eliminare lo stelo florale che la pianta produce in avanzata primavera. La radice del Rabarbaro (rizoma), grossa e fibrosa, ha uso prettamente erboristico, quindi va utilizzata esclusivamente sotto la guida di un medico-fitoterapista. Viene impiegata con successo per regolare la digestione agendo sulla secrezione dei succhi gastrici e della bile. In generale comunque la medicina naturale considera il Rabarbaro un ottimo rimedio per migliorare le funzioni digestive e intestinali.
Senza accedere ad usi prettamente erboristici posso consigliarvi un’antica ricetta per l’uso del Rabarbaro: consiste nel preparare la confettura utilizzabile per guarnire dolci, torte, oppure spalmata sul pane insieme al burro. Dunque: si devono pulire i piccioli e poi tagliarli a tocchetti fino a raggiungere almeno un chilogrammo. Si lasciano riposare per una notte dopo averli messi in una ciotola di vetro e ricoperti di zucchero, sul quale si spreme un limone intero. Il giorno dopo si cuociono, prima con fuoco vivace, poi a fuoco lento per mezz’ora o poco più. Schiumare e poi mettere nei vasetti sterilizzati in forno. Questa confettura è adatta anche ai bimbi e per coloro che soffrono di celiachia (intolleranza al glutine); può essere conservata in luogo fresco, buio e asciutto, per 6 mesi, ma una volta aperto il vasetto, il contenuto deve essere consumato in fretta. Io la consiglio soprattutto sulle crostate, che assumono un sapore antico equilibrando il dolce della pasta con l’amaro del generoso Rabarbaro.
Enzo Bona