Momo: origine di una challenge

Parliamo oggi di un fenomeno presente su Internet alcuni anni fa: Momo, un essere spaventoso che i ragazzi venivano sfidati a contattare su WhatsApp, che rispondeva con audio terrificanti e foto horror di omicidi e cadaveri, invitando a continuare la catena a suon di minacce e maledizioni. Ma il fenomeno Momo è esistito davvero? In realtà il personaggio sembrava ricavato da un’eterna leggenda nera di Internet basata sul prototipo del personaggio malevolo, che minacciava i giovani scriteriati al punto di accettare la sua sfida. Insomma un soggetto da film horror più che un rischio concreto.

Come nacque Momo? Secondo la leggenda aveva una fisionomia ben definita, quella di una donna con lunghi capelli neri, dal ghigno malevolo e gli occhi fuori dalle orbite. L’immagine fu probabilmente ricavata da una foto su Instagram postata da una ragazza giapponese, rappresentava la parte superiore di una statua che fu esposta nel 2016 nella Vanilla Gallery, a Tokio, in occasione di una mostra sul tema fantasmi. L’immagine provocò numerosi tentativi di interpretazione e di paragone. C’è chi vide in Momo, la Shelley Duvall di Shining, per esempio. Oppure la Kuchisake-onna, ovvero donna dalla bocca spaccata, della tradizione giapponese. Un fantasma con due ferite ai lati delle labbra a formare un ampio ghigno, simile al personaggio Joker. Una curiosità: lo spirito apparterrebbe all’attraente moglie di un samurai, da lui sfigurata, in seguito alla scoperta di un tradimento, che apparirebbe ai passanti chiedendo loro ” Sono bella?”. A una risposta negativa replicherebbe uccidendo i malcapitati e a una positiva sfigurandoli nello stesso modo. L’interpretazione corretta fu però fornita da un cartello ai piedi della statua, identificando Momo come un’Ubume, personaggio tipico del folklore giapponese, ovvero il fantasma di una donna morta dando alla luce il proprio figlio. (Il termine Ubume viene scritto con un simbolo usato per rappresentare un uccello leggendario che la tradizione rappresenta come una donna morta di parto). La statua di Momo venne raffigurata proprio in questo modo, ossia un busto di donna su due zampe di uccello.

L’anonimo utente che lanciò il meme su wathsapp ritagliò volutamente la figura, escludendo questo particolare. Nella tradizione giapponese si tratta comunque di un fantasma buono. La leggenda può quindi essere nata così. Qualche utente buontempone dopo aver preso la foto ritagliata e avendola inserita come immagine profilo wathsapp, inviò foto horror e messaggi particolarmente cruenti ad account presi a caso, rendendo il fenomeno virale. La leggenda sembra aver avuto maggior diffusione nell’america latina al punto da condurre a interventi pubblici le autorità, invitando gli utenti a non scrivere all’account di Momo, configurando il tutto come un gioco visto come una presunta catena di Sant’Antonio introdotta dalla scritta “Quando avrai scritto a questo numero la tua vita non potrà essere più la stessa” con annessa conversazione con frasi minacciose da parte della sedicente Momo del tipo “Ti sto guardando” “Ti sei messo nel gioco sbagliato, con la persona sbagliata”…e simili.

E in Italia? Qui la leggenda di Momo non ha avuto il riscontro avuto in America latina, e le ricerche da parte di alcuni YouTubers non hanno portato a conclusioni soddisfacenti.

C’è comunque da chiedersi come mai queste challenge abbiano così tanta diffusione e successo. Alla base si trova sempre il web, inteso come luogo oscuro e malfamato in cui malintenzionati attendono nel buio con intenti malevoli, come furto di dati o l’induzione al suicidio. La prudenza quando si naviga in Internet è ovviamente un must, ma le leggende spesso amplificano il potere di questi individui, conferendogli super poteri. Inoltre questa, come altre storie similari, ripropone l’archetipo del personaggio spaventoso demone o fantasma che si viene sfidati a contattare. Un cliché insomma.

In un certo senso la storia di Momo può essere vista come la versione più moderna di “Bloody Mary”, lo spettro che comparirebbe recitando tre volte il suo nome davanti a uno specchio.

Cosa spinge allora a eseguire il rituale? Molto semplicemente la fascinazione dell’”altrove” per sfida, divertimento, per dimostrare di non aver paura, ma sempre con un pizzico di timore. E se le entità evocate comparissero davvero?

Infine il terzo elemento su cui giocano queste challenge è la possibilità di essere spiati tramite il cellulare o altri mezzi informatici. In realtà non è affatto possibile che questo avvenga tramite una semplice conversazione sull’app. È altresì vero che spesso gli utenti sono in possesso di profili aperti da cui si possono ricavare tutte le informazioni necessarie.

In conclusione questa, come molte altre è stata una mera leggenda metropolitana. Con un suo certo fascino, bisogna riconoscerlo, ed esiti non propriamente etici.

Sonia Filippi